Nella Roma repubblicana, i cittadini che volevano accedere alle magistrature dovevano seguire alcune regole.
Chi aveva trent’anni, dopo aver compiuto il servizio militare, poteva aspirare alla questura; entro i dieci anni successivi poteva diventare edile o tribuno; a quaranta pretore e a quarantatre console.
Ogni candidato doveva anzitutto fare una dichiarazione delle proprie intenzioni e dei propri programmi, dopodiché, se gli venivano riconosciuti i requisiti necessari, rivestiva la toga candida (da cui il termine candidatus) e iniziava la propaganda elettorale, realizzata sia oralmente, sia mediante iscrizioni sui muri delle costruzioni e soprattutto con banchetti, elargizioni di viveri e di denaro, tanto che lo stato fu costretto a emanare una prima legge nel 358 a.C. per tentare di stroncare un simile malcostume.
La votazione dei candidati aveva luogo nei comizi. Se il voto in origine era orale e pubblico (dinanzi ai rogatores, i raccoglitori di voti che segnavano i risultati su apposite tavolette di cera, le tabellae), a partire dalla seconda metà del II secolo a.C., per porre un freno al broglio elettorale, divenne segreto: il voto doveva essere trascritto su una tavoletta cerata da depositarsi in un’urna.
Il provvedimento secondo cui il voto andava depositato in un’urna non pose però fine alla corruzione. Non solo si ricorreva alla violenza diretta, che impediva il regolare svolgimento delle operazioni di voto con rovesciamento delle urne, ingiurie, percosse, ma si faceva anche ricorso alla distribuzione di schede già compilate, al voto di persone non inscritte nelle liste, al conteggio fraudolento dei voti.
Di fronte a un simile stato di cose si cercò di correre ai ripari con nuove leggi: ancora una volta però fu trovato il modo di eluderle, con sotterfugi sempre nuovi. Ad esempio i candidati cercarono di distribuire personalmente denaro, attraverso abili intermediari che avvicinavano gli elettori cercando di comprare il loro voto con cospicue somme di denaro o con gratuite distribuzioni di viveri.
Una volta ultimata la votazione, i diribitores, o scrutatori, davano inizio allo spoglio: si provvedeva quindi alla proclamazione del risultato e alla designazione del neoeletto, che da quel momento diveniva magistrato-designato, in attesa di assumere le sue funzioni.
Nel giorno iniziale dell’anno amministrativo, che nel 154 a.C. venne fissato al 1° gennaio (solo per i questori e i tribuni della plebe era anticipato rispettivamente al 5 e al 10 dicembre), il nuovo magistrato poteva finalmente entrare in possesso di tutte le attribuzioni proprie della carica.
Diversamente rispetto all’ecclesia ateniese, dove i voti erano contati “per testa”, nei comizi romani i voti erano contati “per gruppo”, ovvero per “sezione elettorale”.
A Roma infatti l’unità elettorale non era il singolo cittadino e quindi il suo voto, bensì la sezione, di cui egli faceva parte e che comprendeva più cittadini: ogni sezione disponeva di un solo voto e quindi risultava accolta quella legge o eletto quel magistrato che aveva ricevuto i voti dal maggior numero di sezioni.
Dal momento che le singole sezioni non risultavano costituite dallo stesso numero di cittadini, un candidato eletto poteva avere sì ricevuto il voto dal maggior numero di sezioni, ma rispetto al totale dei votanti il numero di voti ricevuti poteva chiaramente essere inferiore a quello del candidato perdente.
Stando così le cose, è facilmente comprensibile quali effetti antidemocratici potesse avere un simile procedimento, specie se opportunamente manovrato.