Durante i secoli del suo lungo dominio, Roma aveva imposto a tutti i popoli conquistati le proprie leggi e la propria lingua, il latino.
Tuttavia, dopo il crollo dell’impero romano erano andati sempre più distinguendosi due tipi di latino: la lingua colta degli eruditi e dei sapienti, il sermo doctus, e la lingua parlata quotidianamente dal popolo, il sermo vulgaris, da vulgus, “popolo”.
Durante l’impero carolingio, segnato dal particolarismo e dal policentrismo, in tutti quei territori che erano stati parte dell’impero romano il sermo vulgaris rimase come base comune, ma fu rielaborato a tal punto che divenne una lingua nuova.
Dalla lingua “volgare” si sviluppò una grande varietà di dialetti, moltissimi dei quali, nel corso del tempo, assunsero il ruolo di lingue regionali e poi nazionali. Il volgare si distinse di fatto in Europa in due fondamentali ceppi linguistici: quello settentrionale, in cui prevalsero le originali caratteristiche germaniche e da cui si svilupparono inglese, tedesco, svedese, danese, norvegese), e quello meridionale, dove si mantennero più evidenti i segni della romanità e da cui presero avvio le lingue neolatine, o romanze (italiano, francese, spagnolo, portoghese, romeno).
Tra i testi più importanti nella storia delle lingue volgare si attestano i Giuramenti di Strasburgo (842), l’accordo siglato tra Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo, figli di Ludovico il Pio, i quali davanti ai propri eserciti si giurarono fedeltà e aiuto reciproco contro l’altro fratello, Lotario, erede del titolo imperiale. Perché il giuramento fosse comprensibile ai soldati, che non comprendevano il latino, ognuno dei due fratelli giurò nella lingua dell’esercito dell’altro: Ludovico utilizzò il volgare francese, Carlo il volgare tedesco.
Era l’atto di nascita ufficiale del francese e, simbolicamente, di una Europa nuova in cui l’unità cedeva il passo alla diversità.
Il primo documento che si può considerare scritto in volgare italiano è anch’esso degli inizi del IX secolo, il cosiddetto “indovinello veronese”. Il testo sembra descrivere il lavoro di un aratore, ma si riferisce in realtà a quello di uno scrivano, il che costituisce la soluzione dell’indovinello stesso. scritto in volgare italiano è anch’esso degli inizi del IX secolo, il cosiddetto “indovinello veronese”. Il testo sembra descrivere il lavoro di un aratore, ma si riferisce in realtà a quello di uno scrivano, il che costituisce la soluzione dell’indovinello stesso.La frase recita quanto segue:
Se pareva boves, alba pratalia araba, albo versorio teneba et negro semen seminaba.
“Spingeva avanti i buoi [le dita della mano], arava i prati bianchi [le pagine del libro, bianche prima di essere scritte], teneva un aratro bianco [la penna d’oca] e seminava un seme nero [l’inchiostro]”.
Il primo documento “ufficiale” redatto in volgare italiano, il Placito Capuano, risale invece al 960: nei territori del ducato di Benevento un giudice fu chiamato a dirimere una controversia tra un privato e l’abbazia di Montecassino; fece così giurare in un volgare locale i testimoni, probabilmente incapaci di comprendere la formula equivalente latina. Il giuramento suonava così:
Sao ke kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte santi Benedicti.
“So che quelle terre, entro quei confini che qui si descrivono, trent’anni le ha tenute in possesso l’amministrazione patrimoniale di San Benedetto”.