La legislazione a tutela della violenza di genere
A partire dagli anni Settanta del XX secolo la storiografia, in dialogo con l’antropologia e le scienze sociali, inizia a prestare attenzione prima alla storia delle donne e poi alla storia di genere. Non si tratta di un caso: i movimenti per i diritti civili degli anni Sessanta hanno innescato un interesse anche storiografico oltre che civile.
Gli interessi di ricerca, in seguito, si sono evoluti in suggerimenti importanti per le politiche pubbliche nazionali e internazionali, ispirando una nuova legislazione volta a tutelare i diritti delle donne e a sanzionare la violenza e gli atteggiamenti predatori contro di loro.
Negli anni a seguire queste esigenze avranno spesso una ricaduta nei documenti delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni internazionali. Per esempio, nel 1993 l’ONU adotterà la Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne, nella quale si definisce tale violenza come “una manifestazione delle relazioni di potere storicamente disuguali tra uomini e donne”.
Nel 2011 verrà inoltre pubblicato dal Consiglio d’Europa il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante, la Convenzione sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, nella quale si individua una serie di delitti contro le donne che gli Stati dovrebbero includere nei loro codici penali. Tra questi sono elencati, oltre alla violenza sessuale e lo stupro (art.36), la violenza psicologica e lo stalking (artt. 33-34), il matrimonio e l’aborto forzato (artt. 37 e 39), le molestie sessuali (art. 40). L’articolo 14 recita, inoltre, che “le Parti intraprendono […] e azioni necessarie per includere nei programmi scolastici di ogni ordine e grado dei materiali didattici su temi quali la parità tra i sessi, i ruoli di genere non stereotipati, il reciproco rispetto, la soluzione non violenta dei conflitti nei rapporti interpersonali, la violenza contro le donne basata sul genere e il diritto all’integrità personale”.
Il compito della storia nel curriculum scolastico
Ci sono dunque molte ragioni, insieme didattiche e di impegno civile, affinché nella scuola si faccia ricorso alla storia per spiegare fenomeni che generano allarme sociale, limitano i diritti delle singole donne e spesso rappresentano il retroterra culturale che porta a fenomeni ancora più tragici come i femminicidi.
Si tratta perciò di un oggetto di studio complesso. La storiografia deve confrontarsi non solo con i fatti, ma anche con le diverse definizioni legali e culturali che hanno nascosto o tollerato la violenza nel corso dei secoli. Violenza che ha trovato soprattutto nell’ambito familiare un ambiente particolarmente significativo di sviluppo.
La violenza familiare in Età moderna
Soprattutto nell’Età moderna, tra il Quattrocento e l’Ottocento, la violenza sulle donne, e in modo specifico quella all’interno del matrimonio, non veniva definita con il termine di “violenza”. Si preferiva utilizzare la parola sevizia, che deriva dal latino saevus e significa crudele o feroce, in quanto questa connotava l’eccesso dell’atto violento maschile contro le donne (che veniva punito dalla legislazione solo perché eccessivo) ma non condannava certo l’atto stesso, che era considerato fondamentalmente legittimo. La sevizia era considerata perseguibile quando arrivava a livelli di crudeltà tali da mettere a repentaglio la vita della donna stessa o la sua piena integrità fisica; ma il discrimine tra la sevizia e la violazione del corpo delle donne (definita “sevizia lieve”, e quindi socialmente accettabile) era demandato alla discrezione dei magistrati, i quali erano prima di tutto maschi cresciuti in contesti familiari dove valevano le regole sopra descritte.
La relazione coniugale infatti era concepita sulla gerarchia del dominio maschile e dava per scontata la passività della donna. Il soggetto maschile – marito, padre o fratello – aveva sia il dovere di proteggere la donna sua parente, sia quello di castigarla e correggerla ogni qualvolta i suoi comportamenti fossero considerati contrari alle norme sociali accettate: norme fondate sul convincimento della superiorità intrinseca dell’uomo sulla donna.
Esistono molte situazioni nelle quali vengono descritti i conflitti coniugali derivanti da questo stato di fatto. Per esempio, succedeva che una donna chiedesse aiuto ai tribunali ecclesiastici attivi presso le diocesi quando il livello di violenza subita sotto il tetto coniugale diveniva inaccettabile. In questo caso poteva essere autorizzata la separazione fisica dei coniugi, e la donna poteva essere collocata in una struttura religiosa come forma di protezione. Il vincolo matrimoniale, tuttavia, non si interrompeva ed era dunque facile che la moglie dovesse, presto o tardi, tornarsene sotto l’autorità del marito che le aveva usato violenza.
La formazione delle fonti giuridiche a partire dai repertori confessionali
Molto interessanti sono le fonti derivate dalla cosiddetta letteratura normativa. Si trattava in origine di repertori redatti da confessori e inquisitori, basandosi sui quali vennero scritti trattati come l’emblematica Regola della vita matrimoniale (1492 ca.) del frate Cherubino da Siena. Dall’originario campo religioso questa letteratura si riversò nell’ambito del diritto penale e dei manuali per i giudici. In quei testi veniva dispiegata una vera e propria dottrina sulla correzione coniugale e il grado di violenza tollerabile, inserendosi quindi notevolmente nella vita intima dei coniugi. Anche in questo caso il punto di vista dominante era quello maschile: lo scopo di questa pubblicistica consisteva nel ribadire i ruoli sociali, sottolineare la subalternità femminile e, al limite, provare a mettere dei limiti agli eccessi di violenza maschile quando questi degeneravano.
Studiare la violenza sulle donne: dove trovare le fonti
Può essere stimolante a scuola, magari in un progetto interdisciplinare tra gli insegnamenti di storia, scienze giuridiche e/o in genere nell’ambito dell’Educazione civica, imparare a consultare le fonti e a leggerle criticamente.
Per indagare la sevizia contro le donne in Età moderna, la storiografia usa fonti che intercettano i conflitti coniugali e morali:
- resoconti dei processi matrimoniali: si tratta di archivi ricchissimi di testimonianze delle vittime, rilasciate durante i processi che si svolgevano presso i tribunali ecclesiastici, dei veri tribunali del matrimonio, che si trovavano nelle diocesi vescovili;
- letteratura normativa: i manuali per i giudici e gli avvocati e la letteratura confessionale;
- archivi istituzionali: archivi come quello dell’Inquisizione romana possono, in casi specifici, contenere elementi utili alla ricostruzione del fenomeno, sebbene non fosse il loro obiettivo primario.
In epoca contemporanea, che si occupa di violenza di genere in ambito storico e giuridico si concentra principalmente su tre ambiti.
a) Fonti giuridiche e codici:
- codici penali: l’analisi del Codice penale italiano – ad esempio, le discussioni sull’abrogazione del delitto d’onore nel 1981 e sulla riclassificazione della violenza sessuale come “delitto contro la persona” nel 1996 – permette di ricostruire i contesti, i linguaggi e le politiche del diritto. Da notare come fino a non molto tempo fa la legge stessa era complice o tollerante verso la violenza maschile;
- legislazione internazionale: l’analisi di documenti come la Convenzione di Istanbul (2011) viene usata per comprendere come gli Stati abbiano progressivamente riconosciuto e tentato di contrastare la dimensione strutturale del fenomeno.
b) Fonti giudiziarie e istituzionali:
- archivi dei tribunali: i processi (civili e penali) per lesioni, maltrattamenti e omicidio forniscono la documentazione diretta sui casi. L’analisi si concentra sul linguaggio utilizzato da giudici e avvocati/esse e su come la violenza fosse inquadrata;
- archivi storici del Ministero dell’Interno: i registri di denunce e gli atti di indagine mostrano l’interazione tra vittime e istituzioni, rivelando la sottostima storica del fenomeno.
c) Fonti statistiche e di ricerca sociale:
- indagini statistiche: dalla fine del XX secolo, le indagini statistiche specializzate (come, ad esempio, quella sulla sicurezza delle donne realizzata dall’ISTAT) forniscono dati essenziali per misurare la diffusione del fenomeno e la sua percezione sociale, andando oltre i limiti delle denunce ufficiali;
- rapporti di istituzioni e associazioni: i dati raccolti da centri antiviolenza e associazioni femministe, pur essendo non istituzionali, sono cruciali per una lettura qualitativa del fenomeno e per documentare le risposte sociali alla violenza.