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Hic manebimus optime (“Qui staremo benissimo”) compare nelle pagine dello storiografo Tito Livio che, nel suo Ab ube condita (libro V, 54-55), attribuisce queste parole a un centurione romano.

Per comprendere la potenza di questo motto dobbiamo calarci nel momento più buio della Roma repubblicana. Siamo nel 390 a.C. e Roma è un cumulo di macerie fumanti dopo il sacco dei Galli Senoni, guidati da Brenno, che ha messo a ferro e fuoco la città e violato i luoghi sacri. Il trauma è così profondo che i tribuni della plebe propongono di abbandonare le rovine e trasferire l’intera popolazione nella vicina città di Veio, da poco conquistata. Il Senato è spaccato: a opporsi con tutte le sue forze è il dittatore Furio Camillo, l’eroe che ha sconfitto Veio e che ora si appella al fatum di Roma, ricordando che gli dèi hanno scelto quel preciso luogo per la fondazione della città. Ma le sue parole non bastano a sciogliere il dubbio. Proprio mentre i senatori, incerti, discutono animatamente, dal foro si leva una voce. Un centurione, che sta marciando con la sua coorte e che è totalmente ignaro del dibattito in corso, si ferma e intima al suo vessillifero: Signifer, statue signum; hic manebimus optime! (“Vessillifero, pianta l’insegna; qui staremo benissimo!”).

I senatori, udendo la frase, la interpretano immediatamente come un segno divino inequivocabile. Ogni esitazione cessa, la proposta di trasferirsi a Veio è respinta. La frase non è solo un’affermazione di resilienza, bensì un atto di fede nel futuro, la decisione di restare non per inerzia, ma per trasformare la rovina in una nuova fondazione.

Questa sententia attraversa i secoli. Sempre in senso patriottico il motto verrà utilizzato da Gabriele d’Annunzio che, durante la spedizione per rivendicare la città di Fiume nel 1919, incita i suoi legionari con questa espressione. Il motto sarà stampato sui francobolli dell’epoca e inciso persino su uno scudo della Quadriga dell’Unità in cima al Vittoriano.  

Interessante è anche un riuso letterario a opera di Eugenio Montale, che recupera il motto nella poesia Al mare (o quasi), tratta dalla silloge Quaderno dei quattro anni. Il contesto, tuttavia, è stravolto: se in Livio la frase apre al futuro e alla gloria, in Montale ne certifica la fine. Il motto serve a veicolare una teologia negativa, una visione disincantata della natura e del paesaggio, non più simbolo di rifugio e di purezza, bensì un luogo profondamente segnato dall’intervento umano, dalla spoliazione e dalla precarietà: “Hic manebimus se vi piace, non proprio ottimamente”. Le parole del centurione assumono, quindi, un significato rovesciato ma altrettanto incisivo nella letteratura.