News Secondaria di secondo grado Produzioni animali

La soia

Il principale concentrato proteico nell’alimentazione degli animali da reddito

di  Matteo Dal Maso

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La soia (Glycine Max L.) è una pianta che appartiene alla famiglia delle Fabacee (leguminose); viene coltivata in tutti i continenti e i maggiori produttori, con il 95% circa della quantità prodotta a livello globale, sono le Americhe (Brasile, Stati Uniti e Argentina), la Cina e l’India per un totale di 371.693.592 milioni di tonnellate prodotte nel 2021 (FAOSTAT, 2023).

I semi di soia sono classificati come semi oleosi poiché presentano un contenuto medio di lipidi grezzi compreso tra il 15 e il 25% (Sucheta et al., 2014). Dall’estrazione dell’olio dai semi si ottiene come residuo la farina di soia, ampiamente utilizzata sia nel settore alimentare sia mangimistico che presenta un elevato contenuto proteico (45-50% proteina grezza). La soia può essere utilizzata come pianta foraggera essiccata come fieno o raccolta a un preciso stadio fenologico e conservata col metodo dell’insilamento. La soia insilata presenta un contenuto di proteina grezza pari a 21,6%, NDF 45,2% e lipidi grezzi 6,7%

Il gruppo di ricerca del prof. Tabacco nel 2019 ha dimostrato che da un punto di vista di efficienza produttiva, la coltivazione della soia da insilato permette di massimizzare l’energia e la proteina prodotte per unità di superficie. La successione agronomica della soia da insilato ai cereali autunno-vernini permette inoltre di produrre la massima quantità di proteina per unità di superficie (kg/ha) rispetto ad altre colture raggiungendo i 2474 kg di proteina grezza per ettaro. La soia silo può essere aggiunta alla razione in quantità pari a 8 kg di sostanza secca andando in parte a sostituire la farina di estrazione di soia come fonte proteica. Questa strategia è importante per contenere le spese di acquisto dei mangimi e, in particolar modo, l’acquisto della farina di soia che, secondo il bollettino della borsa granaria di Milano di marzo 2023, è pari a 62,3 €/q. Gli autori che hanno svolto questa ricerca hanno evidenziato che l’utilizzo di soia silo nelle razioni per vacche da latte permette di aumentare l’ingestione (+1 kg di sostanza secca) e, a fronte di una diminuzione di 1 litro di latte prodotto quotidianamente per capo, sono aumentati positivamente i tenori di grasso e proteina (+0,27% e +0,15% rispettivamente). Il vantaggio economico ottenuto dalla dieta con la soia silo si evidenzia in un risparmio del costo giornaliero della razione per capo di 0,14 € e un maggiore ricavo dalla vendita del latte pari +0,34 € per vacca/giorno. 

La granella di soia integrale contiene diversi fattori antinutrizionali come, per esempio, i fattori antitripsinici che inibiscono la degradazione della tripsina a livello intestinale. Questa caratteristica comporta la diminuzione dell’assorbimento di questo importante aminoacido che si ripercuote su una diminuzione dell’efficienza nel sintetizzare le proteine a livello metabolico con il conseguente calo delle performance produttive. I fattori antitripsinici sono termolabili per cui, un trattamento termico della granella integrale come la tostatura, è necessario per l’utilizzo della soia nelle razioni per gli animali, in particolar modo per i monogastrici.

La coltivazione della soia ha un impatto positivo sul suolo in quanto è una leguminosa azotofissatrice in grado di fissare a livello radicale l’azoto atmosferico in azoto ammonico. Tuttavia, grazie alle sue eccezionali caratteristiche in termini di produttività e contenuto energetico e proteico, viene ampiamente coltivata dai grandi produttori mondiali principalmente come monocoltura. Questo comporta un depauperamento del suolo, una maggiore incidenza delle fitopatologie e una conseguente diminuzione della fertilità dei suoli e della biodiversità.

Non da ultimo per ordine di importanza, la soia coltivata dai principali produttori mondiali, contribuisce in modo importante al land grabbing e alla deforestazione (Steinfeld et al., 2006). La coltivazione di soia a livello nazionale, invece, potrebbe risultare una strategia vincente per aumentare la redditività degli allevatori in quanto presenta costi di produzione decisamente inferiori rispetto alla coltivazione del mais (-42% €/ha) con vantaggi non solo economici ma anche agronomici e ambientali, evitando in questo modo la dipendenza dalle importazioni.