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Come lo studio dell’arte e della letteratura possono favorire l’avanzamento scientifico: l’approccio STEAM

di  Maura Coniglione

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E se vi dicessi che un corso di calligrafia ha contribuito a rendere un noto computer, diverso da tutti gli altri? L’ideatore è Steve Jobs: era poco più che adolescente quando decise di abbandonare ufficialmente gli studi universitari, per dedicarsi ufficiosamente ai corsi che lo ispiravano di più. Non sapeva ancora che dieci anni dopo avrebbe contribuito al lancio del Macintosh, che si distingue per la grande qualità della grafica e del design, oltre che per la sua avanguardia tecnologica. 

Un altro celebre esempio di come la tecnica si sposi con l’arte è rappresentato nientepopodimeno che da Leonardo da Vinci. A lui, tra le altre cose, si deve il primo prototipo di veicolo robotico. Leonardo da Vinci era un artista, certo non uno a caso, ma anche un ingegnere, un matematico, e uno studioso di anatomia umana: disegnava, pensava, costruiva. Che non sia questa visione a tutto tondo il mistero dell’invenzione e della creatività?

Eppure, la specializzazione del sapere è il diktat su cui spesso si basa l’educazione ai giorni nostri: le scienze e le materie umanistiche appartengono a due domini separati che sembrano non essere in comunicazione. Ai bambini viene chiesto “ti piace la matematica o l’arte?”, come se fossero in rapporto di mutua esclusione, e non avessero punti d’incontro. Ma le cose non sono sempre state così e stanno tuttora cambiando. Non a caso il Massachusetts Institute of Technology (MIT), una delle istituzioni accademiche più facoltose al mondo, ha introdotto svariati corsi umanistici all’interno della facoltà scientifiche per promuovere l’approccio interdisciplinare e l’integrazione delle conoscenze.

Ma perché integrare un approccio olistico alla conoscenza?

Una delle motivazioni risiede nella conformazione del nostro cervello. Sono passati i tempi in cui si pensava che la mente fosse un oggetto fisso, immobile, diviso in compartimenti stagni tra parte logica-razionale, l’emisfero sinistro, e quello artistica-creativa, quello destro. Recenti scoperte da parte di neuroscienziati hanno evidenziato, invece, come il cervello sia un organo integrato, un sistema interagente in cui al suo interno le componenti – i neuroni – scambiano informazioni tra loro tramite le connessioni sinaptiche, così da creare complesse reti neuronali.

Più che a un insieme di scatole isolate, il nostro cervello assomiglia ad una cartina geografica attraversata da super autostrade. In questo modo, attività notoriamente logiche, in realtà coinvolgono zone “creative” del nostro cervello, e viceversa. Inoltre, il cervello è un muscolo dotato di plasticità neuronale: si plasma con i contenuti che riceve, non esiste una divisione netta quindi, tra soggetto pensante e contenuto del pensiero, ma sono una la faccia dell’altra. In tal senso non si può trattare i contenuti – ciò che impariamo -, come appartenenti a settori diversi, perché il nostro cervello quando li apprende li integra tra loro, plasmandosi esso stesso su di loro

La domanda è, quindi: che senso ha settorializzare la conoscenza, se il nostro cervello quando rielabora le informazioni lo fa in modo integrato? La specializzazione della conoscenza e, di conseguenza, delle attività umane si è sviluppata gradualmente nel corso del tempo. Già con l’avvento dell’agricoltura l’uomo ha potuto stanziarsi stabilmente nei territori, e ciò ha permesso lo sviluppo della specializzazione delle tecniche, sulla base delle necessità della comunità e delle risorse disponibili. Ad esempio, alcuni individui potevano specializzarsi in agricoltura, altri nella lavorazione dei metalli, altri ancora nella costruzione di abitazioni e così via.

Dalla rivoluzione industriale questa tendenza si è ulteriormente sedimentata. Lo sviluppo di nuove tecniche ha reso disponibili nuove risorse e conoscenze, che a sua volta dovevano essere gestite da lavoratori altamente specializzati. Congiuntamente, all’inizio del XX secolo Henry Ford e il suo team di ingegneri, presso la Ford Motor Company, inventò la catena di montaggio. Questa innovazione ha reso i processi produttivi industriali più efficienti: ciascun operaio faceva solo una cosa, e per questo poteva farla molto velocemente, senza sprecare tempo nel passare da un’attività ad un’altra.

Questo metodo è molto funzionale nel replicare sempre la stessa cosa, ma rende le persone che lo adottano più alienate rispetto al contesto in cui operano (perdonami, Marx, se parafraso le tue parole!), non consentendo lo sviluppo della creatività. È come avere il paraocchi, vedi una sola strada e ti convinci che quella sia l’unica esistente. Questo è il rischio dell’iper-specializzazione. Senza considerare la mancanza di sogno, di ideale, di scopo cui questo eccesso può portare. Con il passare del tempo e l’avanzamento delle tecnologie e delle conoscenze, la specializzazione delle attività è diventata sempre più complessa e differenziata. Nei tempi moderni, questo fenomeno si è intensificato, con individui che si dedicano a una vasta gamma di professioni altamente settoriali, dalle scienze mediche all’ingegneria, dalla finanza allintrattenimento, e così via.

Se le sfide future, come il cambiamento climatico, i conflitti geopolitici, la crescita demografica e la scarsità di materie prime richiedono sempre più conoscenze approfondite e specializzate, è vero anche che la complessità del mondo in cui viviamo richiede soluzioni sempre più creative. Ma le grandi invenzioni non sono mai state fatte replicando ciò che c’era già, ma unendo i puntini, attingendo a diversi ambiti anche apparentemente diversi tra loro. Se nulla si crea e nulla si distrugge, allora il nuovo, nasce proprio dall’unire diversamente tasselli già esistenti. E questa capacità non può passare solo tramite un’istruzione altamente specializzata.  

L’esigenza di un collante, di una matrice, che tenga la conoscenza insieme, è necessità pressante, che deve essere sostenuta ed incentivata a livello dell’istruzione tramite una concezione olistica della conoscenza e delle abilità. Fortunatamente, esiste già un concetto che esprime quanto detto: l’interdisciplinarietà. Per interdisciplinarità si intende la comunicazione tra discipline appartenenti a domini separati, sia dal punto di vista delle conoscenze, che dei metodi.

In questo contesto si inquadra il cosiddetto trasferimento delle conoscenze, ossia la capacità di sfruttare risorse apprese in un contesto, per raggiungere obiettivi in contesti diversi. Un’applicazione audace del concetto di trasferimento delle abilità cognitive è rappresentata da alcuni studi che esplorano come attività creative, che riguardano il pensiero divergente, incentrato sulle idee, possano aiutare a risolvere problemi matematici, che richiedono notoriamente un pensiero convergente, incentrato sulle soluzioni.

Un’applicazione di interdisciplinarità si ha per esempio nella robotica, considerato non più un dominio prettamente ingegneristico. Diversi ricercatori stanno studiando come poter integrare i robot nella vita di tutti i giorni per aiutare le persone, come anziani o disabili. Nessuno investirebbe milioni di euro nella costruzione di robot che non userebbe nessuno, perché troppo inquietanti! Per far questo è necessario studiare in modo approfondito l’umano, e programmare robot che siano avvertiti come familiari, al pari di individui a cui affidarsi. Questo è uno splendido esempio di comunione tra ingegneria robotica e psicologia

Chi lo sa, quindi? Un filosofo si potrebbe ritrovare a prendere decisioni importanti in banca, oppure uno psicologo  potrebbe imparare a programmare, oppure ancora un fisico potrebbe lavorare in comunicazione.  Questi, non sono esempi a caso, perché è ciò che sta già avvenendo! Materie apparentemente sconnesse tra loro hanno più punti in comune di quanto pensiamo. E se non ne esistono ancora, ciò non vuol dire che non ce ne saranno!

Da questo input è nato l’approccio STEAM. Esso incentiva un’educazione integrata tra le discipline tecnico-scientifiche (Science, Technology, Engineering, and Mathematics), e le Arti. Stiamo assistendo ad intelligenze artificiali che creano opere d’arte utilizzando algoritmi particolarmente complessi, le cosiddette GAN (reti neurali generative), o assistenti virtuali basati sull’intelligenza artificiale che ti aiutano a fare brainstorming quando devi trovare nuove idee per il tuo progetto. Insomma: nel mondo del futuro, ormai sempre più presente, non si può più chiedere ad un bambino se vuole fare l’astronauta o il calciatore, ma gli si deve insegnare ad appassionarsi al mondo che lo circonda, passando dall’arte, alla fotografia alle equazioni di secondo grado.

Addirittura, l’allenamento fisico si è visto che aiuta l’apprendimento e stimola nuove connessioni neuronali! E quindi, alla domanda “ma a cosa serve la matematica?”, gli si potrà rispondere che la natura è matematica (in un fiore puoi trovare bellezza, ma anche la sequenza di Fibonacci!), che la musica di Beethoven sembra organizzata in base a schemi e strutture matematiche, e che la nascita della fotografia ha più a che fare con un laboratorio di ottica che con l’arte, che la matematica è un mezzo (a meno che ti piaccia così tanto da farne un fine) e che il collante tra tutte queste attività è la creatività! E la creatività si allena anche scrivendo poesie, parlando con un tuo amico o studiando storia. 

In conclusione, la conoscenza del mondo è unica, seppur complessa. La scomposizione del sapere è funzionale al sistema sociale e all’organizzazione dell’istruzione, ma deve essere il punto di partenza, non di arrivo, verso una visione integrata della realtà, che permetta di trovare soluzioni innovative a problemi complessi. E allora, nuovi scienziati letterati, e poeti programmatori, avanti tutta!

Bibliografia

Rubrica a cura di Generazione Stem