Al centro di Roma, in piazza Venezia, nella Sala Zanardelli del Vittoriano è aperta al pubblico sino al 25 febbraio 2024 la mostra La Dea Roma e l’Altare della Patria. Angelo Zanelli e l’invenzione dei simboli dell’Italia unita, curata da Valerio Terraroli, che celebra la conclusione della campagna di restauro del fregio dell’Altare della Patria, realizzato dallo scultore bresciano Angelo Zanelli (San Felice di Scovolo, Brescia 1879 –Roma, 1942) tra il 1910 e il 1925, voluta e diretta dalla direttrice del ViVe Vittoriano-Palazzo Venezia, Edith Gabrielli, e condotto da Susanna Sarmati.
La strategica collocazione nel cuore pulsante della storia di Roma fa del Monumento a Vittorio Emanuele II, comunemente noto come Vittoriano, un nodo nevralgico e ineludibile non solo della città, ma anche del nostro concetto di monumento, e ancor più di monumento celebrativo, che nel corso del suo secolo e poco più di vita ha subito alterne fortune: dalle esaltazioni retoriche più insopportabili alle critiche più feroci, fino ad una sorta di damnatio memoriae che arrivò ad auspicarne il trasferimento in un altro luogo o, addirittura, la demolizione parziale e la sua trasformazione in una sorta di nostalgica rovina, in analogia con i vicini Fori imperiali.
Con la distanza temporale e culturale che ci separa dagli eventi che concorsero alla sua nascita e al suo sviluppo, ma anche dalle diverse attribuzioni di valore di cui il complesso monumentale è stato oggetto, oggi possiamo ragionare criticamente sul significato di quel manufatto attraverso una ricostruzione storica delle diverse vicende che lo hanno prodotto, contestualizzandolo nel momento in cui fu ideato, ma anche chiederci che cosa è nella realtà contemporanea il senso di quella gigantesca struttura che rappresenta non solo il più grande museo all’aperto della scultura italiana tra Ottocento e Novecento, ma che per merito dei Presidenti della repubblica Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella ha riacquistato il ruolo di rappresentare i valori di unità, di libertà e di uguaglianza sanciti dalla nostra Costituzione.
Tale riappropriazione del monumento, dal quale per altro si ha la più ampia e spettacolare veduta di Roma e dei Fori imperiali, da parte di un larghissimo pubblico (3.800.000 visitatori nel 2023) è ancor più significativa oggi in occasione del restauro di quello che correttamente viene individuato come l’Altare della Patria: sintesi simbolica della nazione nata dalle Guerre d’Indipendenza, ulteriormente sacralizzato dalla collocazione della salma del Milite Ignoto al disotto della figura della Dea Roma che è il vero e proprio perno iconico e significante dell’intero complesso monumentale del Vittoriano.
Protagonista e autore di quell’invenzione fu Angelo Zanelli, un giovane scultore di origine bresciana, dal notevole talento, perfezionato e indirizzato nel corso degli studi nella scuola di arti e mestieri Moretto di Brescia, poi, attraverso borse di studio, nell’Accademia di belle arti di Firenze e in quella di Roma, che vinse nel 1909 il concorso nazionale del 1908 per la decorazione plastica dello spazio sottostante la statua equestre del Re. La mostra propone, quindi, un percorso che, presentando sia agli esordi veristi dello scultore sia la sua fase simbolista, punta l’attenzione sia sulla questione del fregio monumentale e dei valori allegorici che questa tipologia scultorea porta con sé, a partire dalla tradizione classica fino all’età moderna, sia sulla definizione dell’iconografia della Dea Roma, che divenne a sua volta un modello nel corso degli anni Venti e Trenta, per seguire l’evoluzione del linguaggio dell’artista in ordine al tema del monumento celebrativo con le imprese scultoree per il Campidoglio di Cuba (1925-1930) e di Tolentino (1935-1940).
Fra il 1913 e il 1919, essendoci di mezzo anche la guerra, le due ali del fregio realizzate in marmo di Botticino andarono via via a sostituire il modello in gesso ormai illeggibile, ma rispetto al quale lo scultore dimostra di aver scelto definitivamente la strada del neomichelangiolismo sostenuta dal vecchio Rodin, ma asciugato da qualsivoglia effetto pittorico, materico, in favore di definizioni anatomiche risentite, non naturalistiche certo, ma caratterizzate da quel linearismo arcaico, classico e primitivo insieme, che si riconosce nelle contemporanee opere di Émile-Antoine Bourdelle, di Aristide Maillol e, soprattutto, di Ivan Meštrović, ma depurati da qualsiasi declinazione espressionista. Anzi, nei dettagli dei volti, dagli occhi sgusciati, vagamente orientaleggianti e dai tagli netti dei profili, e nell’euritmia delle silhouettes sovrapponibili di figure, di cavalli e di trombe trionfali, si percepisce in modo chiaro la metamorfosi dalla grammatica secessionista al fraseggio déco: ancora una volta le variazioni del gusto contemporaneo occhieggiano in sottotraccia nella modellazione zanelliana.
Angelo Zanelli, Le teste dei cavalli, particolare del Lavoro che vivifica e feconda, dopo i restauri, 2023 (foto V.Terraroli).
Nel frattempo, l’Altare si fregiava di un nuovo simbolo, condiviso con le altre nazioni coinvolte nel conflitto mondiale: la tomba del Milite Ignoto. Il 28 ottobre 1921, davanti alla basilica di Aquileia tra undici salme di soldati sconosciuti ne fu scelta una. Il convoglio funebre ci mise giorni a percorre il tratto ferroviario fino a Roma e divenne a sua volta, come le cronache e le immagini d’epoca testimoniano, un rito collettivo del dolore e della memoria. Il 4 novembre 1921 il Milite Ignoto venne tumulato nella tomba ricavata ai piedi della statua di Roma, non ancora collocata, che da quel momento assunse anche il ruolo di custode e protettrice della memoria comune e dei valori di pace e fratellanza.
Nel 1925 il lungo percorso della decorazione si concluse con la collocazione nella nicchia centrale della Dea Roma, con in mano la lancia e la Vittoria alata in argento, divenendo, in sostanza, l’atto conclusivo dell’allestimento decorativo e simbolico dell’Altare della Patria la cui iconografia, evocante l’Athena Parthenos di Fidia, rappresentava il mito antico passato attraverso la Secessione, ma qui fattosi aspro e sontuoso nel preziosismo decadente dei dettagli e della maschera sfingetica, e quindi riconquistato a una solennità che neutralizzava l’estetismo della scelta per l’imponenza religiosa del suo presentarsi. Quell’opera, nell’esecuzione finale, ristabiliva il nesso con la cultura contemporanea, attraverso torniture plastiche più decise e un prepotente, quanto titanico, classicismo, annuncianti le modalità espressive del Novecentismo.
Per approfondire
Sull’arte a Roma e in Italia negli anni che videro l’edificazione del Vittoriano, puoi consultare: Valerio Terraroli, Con gli occhi dell’arte, volume 5, Sansoni per la Scuola, pp. 85-87.
[inserire qui come allegato il pdf delle 3 pagine]
Visita il sito della mostra: