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Una parola non vale l’altra | Natalia Ginzburg

Natalia Ginzburg: la riflessione sulla lingua e il ruolo della letteratura

di  Beatrice Cristalli

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La lingua e la storia: oltre la cifra stilistica c’è di più

Ogni lingua è la storia che si porta dentro. Nella letteratura non sono poche le voci femminili di poetesse e scrittrici che trovano un spazio di sperimentazione linguistica durante il periodo della Resistenza, caratterizzato da un clima vivace di ricostruzione culturale. Giocano con la lingua per raccontare la guerra, l’emancipazione delle donne e gli ideali antifascisti. Un po’ come fanno i loro colleghi. Pensiamo, per esempio, a Beppe Fenoglio, che ne Il partigiano Johnny (1968) utilizza l’inglese, lingua stigmatizzata e bandita durante il Ventennio, per arricchire l’italiano e creare una “nuova lingua letteraria”. Tra le autrici innovative e originali del tempo, Natalia Ginzburg si insinua con forza nella ricerca letteraria grazie alle nuove modalità comunicative che colorano le conversazioni domestiche di Lessico famigliare (1963), un romanzo esplicitamente incentrato sulla memoria autobiografica in cui racconta la vita quotidiana della propria famiglia d’origine dal 1925 ai primi anni Cinquanta. 

Neologismi, dialetto e storpiature

Lessico famigliare: il titolo del romanzo svela come l’autrice assegni un ruolo fondamentale al linguaggio usato dalla sua famiglia, cui attribuisce un valore al tempo stesso narrativo, evocativo e sociale. Per questo, nella sua prosa semplice e autentica, inserisce tic verbali, storpiature, neologismi ed espressioni dialettali. «Negrigure», «potacci», «sbrodeghezzi» sono solo alcune delle parole inventate dal padre Giuseppe Levi. La lingua inedita di Ginzburg diventa così un simbolo, uno strumento per contrapporsi alla situazione linguistica del Paese e per affermare il potenziale del linguaggio parlato. «Era necessario tornare a scegliere le parole, a scrutarle per sentire se erano false o vere, se avevano o non vere radici in noi». Le parole alle quali si riferisce Natalia Ginzburg sono quelle che hanno plasmato non solo la sua famiglia ma anche l’intera collettività. Ogni nucleo, in fondo, in quei dialoghi un po’ si rispecchia. L’autrice si chiede così se sia possibile impiegarle − quelle parole − per rivendicare la realtà, l’esistenza di una forma autentica di comunità dopo la dittatura fascista. In questo senso, la parola è fonte di vita. Di storia e di memoria.

Spunti didattici

Per stimolare ragazze e ragazzi ad approfondire il valore letterario della lingua di Lessico famigliare suggeriamo due spunti di attività da proporre in classe.

L’autrice e il suo romanzo
Proponi alla classe come materiale di studio il video di Chiara Tagliaferri dedicato a Natalia Ginzburg condividendo questo link. Successivamente, apri un dibattito a partire dalle seguenti domande:

  • Come comunicavano le persone in Italia nel periodo che rappresenta Natalia Ginzburg nel suo romanzo?
  • Che cosa intende Chiara Tagliaferri quando parla di “linguaggio semplice e sublime”?
  • «Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte, nel tempo della nostra infanzia. Ci basta dire: “Non siamo venuti a Bergamo per fare campagna” o “De cosa spussa l’acido solfidrico”, per ritrovare un tratto i nostri antichi rapporti, e la nostra infanzia e giovinezza, legata indissolubilmente a quelle frasi, a quelle parole»: cosa vuole comunicare Ginzburg al lettore o alla lettrice?

Dialogare con il presente

L’uso di soprannomi e di un lessico particolare, condiviso all’interno del gruppo ma difficilmente comprensibile agli esterni, caratterizza anche comunità diverse da quelle familiari. Proponi come esercizio di scrittura argomentativa una riflessione sul lessico (1000 battute) che le nuove generazioni utilizzano quotidianamente con amici e amiche e su quanto questo crei un senso di comunità.

In copertina: https://it.wikipedia.org/wiki/Natalia_Ginzburg#/media/File:Natalia_Ginzburg.jpg