La Giornata Mondiale della Voce (World Voice Day) è stata istituita nel 1999 in Brasile, con l’obiettivo di sensibilizzare la popolazione verso il corretto uso di questo strumento, soprattutto tra coloro che lo usano in modo professionale: insegnanti, cantanti, attori e oratori.
Una ricorrenza poco nota ma che merita di essere posta al centro di una riflessione, anche in considerazione del fatto che proprio attraverso la voce i bambini, come gli adulti, esprimono emozioni, raccontano storie, costruiscono relazioni.
Il 16 aprile, Giornata Mondiale della voce, può essere quindi un’occasione preziosa per riflettere sull’importanza dell’espressione orale nella scuola primaria e per proporre attività che aiutino i bambini a usare la propria voce in modo efficace, consapevole e creativo.
Perché lavorare sulla voce con i bambini?
L’oralità è alla base di ogni apprendimento. Parlare bene significa pensare meglio, ascoltare in modo più attivo e sviluppare fiducia in se stessi. Un bambino che sa esprimersi con chiarezza e sicurezza sarà più pronto ad affrontare le sfide scolastiche e sociali. Come sappiamo, la scuola ha tradizionalmente concentrato la sua attenzione sulla scrittura, la lettura viene proposta soprattutto come attività silenziosa e spesso le occasioni legate al parlato sono strutturate e confinate a momenti specifici della giornata. Verrebbe da domandarsi, quindi: quale spazio dedico a questo aspetto, nella mia didattica?
Un buon punto di partenza può essere l’utilizzo di strumenti che accompagnano i bambini e le bambine alla scoperta delle proprie potenzialità espressive, ma su questo faremo un focus specifico al termine dell’articolo.
Attività pratiche per valorizzare la voce in classe
Per celebrare la Giornata della Voce e per integrare l’educazione all’oralità nella routine scolastica, ecco alcune proposte operative adatte alla scuola primaria.
1. Il gioco delle emozioni
Obiettivo: modulare la voce per esprimere stati d’animo diversi.
Scrivere su bigliettini diverse emozioni (gioia, paura, rabbia, sorpresa, tristezza…).
Un bambino pesca un bigliettino e deve pronunciare una frase assegnata dall’insegnante con l’emozione indicata (es. “Oggi c’è il sole” detto con tristezza).
Gli altri compagni provano a indovinare l’emozione.
Variante: usare filastrocche o brevi testi narrativi.
2. Il microfono immaginario
Obiettivo: favorire la sicurezza nel parlare in pubblico.
Creare un “microfono immaginario” (o usarne uno finto) per far esprimere i bambini davanti alla classe su argomenti semplici (es. “Parla del tuo animale preferito” o “Racconta una cosa divertente che ti è successa”).
Incoraggiare la varietà di tono, ritmo e volume.
Premiare l’originalità e la capacità di coinvolgere il pubblico.
3. Parole in movimento
Obiettivo: esplorare il legame tra voce e corpo.
Scegliere parole evocative (es. “vento”, “fulmine”, “mare calmo”, “allegria”).
I bambini devono pronunciarle e accompagnarle con un movimento che ne esprima il significato.
Variante: creare una sequenza di parole per costruire una piccola performance vocale e gestuale.
5. Sussurra, parla, grida
Obiettivo: modulare il volume della voce.
L’insegnante dice una frase e i bambini devono ripeterla in tre modalità: sussurrando, parlando normalmente e gridando (senza esagerare).
Si riflette insieme su quando è più appropriato usare ciascuna modalità nella vita quotidiana.
Un alleato per dare voce ai bambini
L’educazione alla voce e all’espressione orale non dovrebbe essere relegata a un solo giorno all’anno, ma far parte integrante della proposta didattica di ogni insegnante. Per questo, all’interno del sussidiario dei linguaggi “Le storie di Gea”, abbiamo inserito una novità assoluta in ambito editoriale: il “Taccuino per esprimersi”.
Per scrivere, sì, ma anche per parlare, come recita il sottotitolo, nel taccuino i bambini e le bambine hanno la possibilità di mettersi alla prova con attività specifiche per organizzare l’espressione orale in forma laboratoriale: dall’organizzazione di un discorso alla difesa del proprio punto di vista.
In questa Giornata della Voce, dunque, celebriamo l’importanza di dare spazio ai bambini per raccontarsi, giocare con le parole e scoprire la potenza della loro espressione. Perché una voce allenata che sa come esprimersi è una mente che pensa e riesce ad affrontare le mille sfide quotidiane a cui va incontro.
Difficilmente contemplando un bel dipinto pensiamo ad una scia di morte che dura da secoli o addirittura da millenni. Eppure, soprattutto un tempo, avere a che fare con il colore significava correre dei rischi per la salute non indifferenti, spesso mortali. Dal piombo al mercurio, passando per l’arsenico e il cianuro, la storia dell’arte e della moda è punteggiata di pigmenti che contengono elementi chimici potenzialmente letali. Eppure, senza questi elementi tossici non avremmo mai avuto la maggior parte delle opere d’arte che oggi conserviamo nei musei e che hanno ispirato l’umanità. Alcuni di questi colori hanno avvelenato lentamente generazioni di pittori e tintori, altri hanno tinto gli abiti e decorato per anni le pareti delle case e di chi voleva essere alla moda. Analizziamo i principali.
Rosso: Il fascino color sangue del cinabro e del minio
Il rosso è il colore della passione, del potere e… dell’intossicazione da mercurio. Il cinabro, noto anche come vermiglione, è un minerale rosso brillante costituito da solfuro di mercurio (HgS) è tanto bello e ipnotico, quanto velenoso. I minatori che lo estraevano vivevano poco, i pittori che lo maneggiavano poco di più. Durante l’epoca romana, le miniere di cinabro erano considerate luoghi estremamente pericolosi. Schiavi e prigionieri erano spesso costretti a lavorarvi, affrontando le esalazioni letali di mercurio. Questa pratica era talmente rischiosa che equivaleva senza possibilità di scampo a una condanna a morte. Le prime tracce dell’uso del cinabro risalgono al Neolitico, con ritrovamenti a Çatalhöyük, in Anatolia, datati tra l’VIII e il VII millennio a.C. In Cina, già nel 1500 a.C., il cinabro veniva impiegato sia come pigmento che in pratiche alchemiche. Nell’antica Roma, era apprezzato per la sua tonalità vivida, nonostante la ci fosse già la consapevolezza dei rischi associati alla sua manipolazione. Questo non impediva alle matrone di impiegarlo per arrossare le guance o come rossetto: serviva a dare al viso un tono rosato “sano”, passando sopra ai possibili rischi in nome della bellezza. Il cinabro offre una tonalità di rosso senza eguali, se si è disposti ad ignorare la tossicità del mercurio. La polvere di cinabro, se inalata o ingerita, può causare gravi avvelenamenti da mercurio. Nonostante ciò, la sua popolarità è perdurata nei secoli, spesso a scapito della salute di artisti e artigiani. Fu utilizzato anche in Messico e Perù già in epoca pre-colombiana e anche in India, dove veniva impiegato anche come medicinale. Si utilizzò per tutto il medioevo (ce ne parla anche Cennino Cennini) e lo ritroviamo fino all’età moderna, dove venne gradualmente sostituito dal vermiglio, meno caro e sicuramente meno tossico. Scomparve dalle tavolozze, ma rimase negli armadietti dei medici: veniva infatti impiegato come farmaco per la sifilide, fino al divieto del suo uso nel XIX secolo.
Anche il minio è un minerale presente in natura e si tratta di un ossido misto di piombo(II) e piombo(IV). Il suo nome deriva dal latino minium, probabilmente collegato al fiume Miño in Spagna, vicino al suo luogo di estrazione più famoso. Questo pigmento era ampiamente usato fin dall’antichità per affreschi, manoscritti miniati (da cui il termine miniatura) e decorazioni architettoniche. Nel Rinascimento, il minio venne impiegato anche nella pittura a olio, sebbene la sua forte tendenza a scurire nel tempo ne abbia limitato l’uso. Tra le opere che ne conservano traccia troviamo gli sfondi e le vesti di alcune icone medievali e i dettagli architettonici in affreschi romani di Pompei. La sua tossicità, dovuta alla presenza di piombo, ha portato nel tempo al suo abbandono, ma anche in questo caso il suo ruolo nella storia dell’arte resta innegabile. Restava uno dei pochi modi insieme al tossico realgar (a base di arsenico) per ottenere l’arancione fino alla scoperta dei composti del cromo.
Verde: C’è dell’arsenico sulle mie pareti
Un altro pigmento altrettanto affascinante quanto pericoloso è il verde di Scheele, un composto a base di arsenico scoperto nel 1775 dal chimico svedese Carl Wilhelm Scheele. Questo verde brillante trovò rapidamente applicazione nella pittura e nella decorazione, ma la sua instabilità e la sua tendenza a scurire ne limitarono l’uso artistico. Per risolvere questi problemi, venne sviluppato il verde di Parigi (o verde di Vienna), una variante più resistente alla luce e dal colore ancora più intenso. Questo nuovo pigmento, una polvere cristallina di un verde straordinariamente brillante, trovò impiego non solo nella pittura, ma anche in ambiti molto meno prevedibili.
Il nome verde di Parigi deriva dal suo utilizzo nell’Ottocento per derattizzare le fogne della capitale francese. Tuttavia, la sua diffusione andò ben oltre la lotta ai topi: questo verde straordinariamente attraente finì per colorare di tutto, dai gilet alle scarpe, dai guanti ai pantaloni, dalle candele alla vernice. Persino le decorazioni per dolci e i giocattoli per bambini contenevano questa polvere velenosa. L’impiego più diffuso e letale fu probabilmente nelle carte da parati. Sul finire del XIX secolo, più della metà delle carte da parati conteneva pigmenti a base di arsenico, compresi il verde di Scheele e il verde di Parigi. Questi colori risultavano estremamente economici da produrre e garantivano una resa estetica straordinaria, ma nascondevano un insidioso pericolo. Nonostante le evidenze scientifiche sulla pericolosità dell’arsenico, ci fu per molto tempo un forte scetticismo. Questo elemento era infatti utilizzato in ambito medico e cosmetico: nel periodo vittoriano, era assunto come integratore per migliorare la carnagione, con il risultato di ottenere una pelle bluastra e traslucida. L’arsenico veniva prescritto per l’asma, il tifo, la malaria, i dolori mestruali e persino la sifilide. Ancora oggi si conservano pubblicità dell’epoca che promuovono cialde e saponi a base di arsenico, considerati miracolosi per la bellezza della pelle. Tuttavia, sembra che la quantità di composti tossici emessi dalla carta da parati non fosse sufficiente a uccidere direttamente.
Ciò non ha impedito a qualcuno di ipotizzare che una morte illustre fosse legata a questa sostanza. Nel 1961, l’analisi di un campione di capelli di Napoleone Bonaparte rivelò una concentrazione di arsenico molto elevata, mettendo in discussione la sua presunta morte per cause naturali. I sintomi mostrati dall’imperatore nelle ultime settimane di vita erano compatibili con un avvelenamento da arsenico, e si sapeva che le pareti della sua residenza sull’Isola di Sant’Elena erano rivestite con carta da parati colorata con pigmenti tossici. Per decenni, la teoria dell’avvelenamento tenne banco, fino a quando uno studio del 2011 escluse definitivamente questa ipotesi. Verso la metà dell’Ottocento, il verde cadde progressivamente in disgrazia, soprattutto nell’arredamento. Qualche dama audace continuò a indossarlo, ma la sua reputazione era ormai compromessa. Si racconta che la Regina Vittoria avesse sviluppato una vera e propria fobia per questo colore, temendo per la sua salute e quella della sua famiglia.
Giallo: Il Traditore al Piombo
Il giallo di Napoli, noto anche come giallo antimonio-piombo, ha una storia affascinante e pericolosa. I Romani lo usavano per decorare le loro ville, gli Egizi lo mescolavano nelle pitture tombali e nel Rinascimento era tra i colori prediletti per le tele dei grandi maestri. Tuttavia, oltre a dare luminosità ai dipinti, aveva anche la fastidiosa caratteristica di avvelenare chi lo maneggiava con troppa leggerezza. Il giallo di Napoli era una miscela di piombo e antimonio, due elementi che oggi sappiamo non sia saggio spalmare sulle pareti di casa nostra o, peggio, sulle dita mentre dipingiamo. Ma nei secoli passati, la consapevolezza del rischio era piuttosto labile: se un pigmento era bello, perché preoccuparsi se faceva venire strane febbri e ulcere cutanee?
Anche l’’adorato giallo di Van Gogh, il cromato di piombo, era tanto luminoso quanto letale. Più lo si manipolava, più il rischio di avvelenamento aumentava. Ma il pittore olandese non fu l’unico a innamorarsi di questa tinta pericolosa.Non meno pericoloso era il giallo di cadmio, scoperto nel XIX secolo e ampiamente utilizzato dagli impressionisti. Questo giallo brillante e intenso aveva una resistenza superiore rispetto ai suoi predecessori e conquistò immediatamente gli artisti. Tuttavia, il cadmio non è esattamente un toccasana per la salute: inalare le sue polveri poteva causare seri problemi ai polmoni e, in alcuni casi, avvelenamenti letali. Eppure, pittori come Monet, Matisse e Picasso non se ne preoccupavano troppo: la ricerca della luce perfetta da fissare nei loro dipinti valeva qualche rischio per la salute.
Arancione: Tubetti radioattivi
Un tempo i modi per ottenere l’arancione non erano molti. L’arancione di realgar, un solfuro di arsenico, garantiva almeno qualche visita al cerusico locale. Poi, come abbiamo visto, c’era il minio, un ossido di piombo ross-arancio che ha decorato affreschi e manoscritti per secoli, avvelenando impietosamente chi lo usava senza precauzioni. Ma quando si dice che l’arancione è un colore caldo…a volte lo si intende in senso letterale, soprattutto quando parliamo di colori radioattivi. Questo pigmento, derivato dai sali di uranio, conobbe il suo momento di gloria nel XX secolo, quando venne impiegato per smalti ceramici, vetri decorativi e perfino quadranti di orologi. Il più famoso tra questi materiali fu il Fiestaware, una linea di ceramiche prodotta negli Stati Uniti a partire dagli anni ’30, caratterizzata da un acceso arancione ottenuto grazie all’ossido di uranio.
L’entusiasmo per i materiali di questo tipo raggiunse il suo apice negli anni 30’ e durò fino agli anni 50’. Ancora oggi possiamo trovare piatti arancione radioattivi nei mercatini vintage, basta essere equipaggiati con un contatore Geiger per scovarli.
Bianco: Il Fantasma letale del piombo
Tra tutti i pigmenti bianchi della storia, la biacca, o bianco di piombo, è stata senza dubbio la più celebre e la più letale. Utilizzata sin dall’antichità, questa sostanza a base di carbonato basico di piombo garantiva una copertura perfetta e una luminosità senza pari. I pittori fiamminghi e rinascimentali la adoravano per la sua capacità di conferire profondità e volume alle carnagioni, donando una lucentezza quasi tridimensionale. Tuttavia, a fronte di tanta bellezza, c’era un problema non trascurabile: la biacca è altamente tossica.
La sua produzione, che prevedeva l’esposizione del piombo a vapori di aceto in camere sigillate, era un processo tanto ingegnoso quanto pericoloso per gli artigiani che la maneggiavano. Già gli antichi Romani ne conoscevano gli effetti nocivi, eppure il fascino di questo pigmento persistette per secoli. Famosi artisti come Rembrandt, Tiziano e Velázquez ne fecero largo uso, ignari o forse noncuranti dei danni che il piombo poteva causare al loro organismo. Il problema non riguardava solo i pittori: la biacca era anche un ingrediente nei cosmetici, con risultati devastanti per la salute di chi ne faceva uso.
Nel XIX secolo, con l’avvento di alternative meno pericolose come il bianco di zinco e il bianco di titanio, la biacca iniziò a perdere popolarità, sebbene continuasse a essere usata per la sua ineguagliabile resa pittorica. Oggi è vietata nella maggior parte dei paesi, ma i restauratori e alcuni artisti tradizionalisti ancora la impiegano con cautela. L’arte, si sa, pretende sacrifici—anche se, fortunatamente, sempre meno letali.
Blu: Bello e Maledetto
Il blu sembra un colore rassicurante, ma non sempre è così. ll blu, colore dell’infinito e associato alla calma, ha avuto una storia tutt’altro che serena quando si tratta di pigmenti. Alcuni dei blu più iconici della storia dell’arte sono stati, in realtà, tra i più tossici e insidiosi mai utilizzati. Tra questi, il Blu di Prussia e il Blu di Cobalto si distinguono per bellezza… e pericolosità.
Scoperto per caso nei primi anni del XVIII secolo, il Blu di Prussia (ferrocianuro ferrico) permise di ottenere un blu intenso e stabile: il solo vero blu affidabile, prima, era il lapislazzuli macinato, noto come blu oltremare, che costava quanto l’oro. Il Blu di Prussia divenne dunque una rivoluzione per gli artisti, rendendo il blu accessibile. Si diffuse rapidamente nelle tavolozze di tutta Europa.
Ma, come spesso accade, la sua formula nascondeva un lato oscuro. Il nome ferrocianuro potrebbe far suonare qualche campanello d’allarme, e a ragione: il pigmento può rilasciare acido cianidrico, una delle sostanze più tossiche conosciute, se riscaldato o mescolato con acidi forti. Insomma, una splendida tonalità di blu con il potenziale di trasformarsi in qualcosa di pericoloso.
Paradossalmente, il Blu di Prussia è anche un antidoto per l’avvelenamento da tallio. Grazie alla sua struttura chimica, questo pigmento è in grado di legarsi ai metalli pesanti nell’organismo e facilitarne l’espulsione. Un altro protagonista nella saga dei colori tossici è il Blu di Cobalto, una tonalità straordinariamente vibrante amata da artisti come Van Gogh e Monet. Scoperto alla fine del XVIII secolo, questo pigmento venne salutato come un’alternativa più stabile al Blu di Prussia e all’oltremare naturale. Luminoso, resistente e perfetto per cieli e ombre profonde, il Blu di Cobalto divenne una presenza fissa nelle tavolozze dell’arte moderna.
Tuttavia, il cobalto non è esattamente un ingrediente da maneggiare con leggerezza. L’inalazione prolungata delle sue polveri può causare avvelenamento cronico, problemi respiratori e disturbi neurologici. Inoltre, il cobalto veniva utilizzato anche per smalti e ceramiche, e chiunque abbia lavorato con questi materiali senza precauzioni si esponeva a rischi non trascurabili. Il fascino del Blu di Cobalto era così irresistibile che venne impiegato perfino nei cosmetici e nei coloranti per vetro, senza troppe preoccupazioni per le sue conseguenze sulla salute. Anche oggi è ancora in uso nella pittura artistica, ma con precauzioni maggiori rispetto al passato.
Oggi i colori tossici sono quasi tutti sostituiti da versioni più sicure, ma il fascino della loro storia a tratti sinistra rimane. Ogni pennellata del passato era un rischio e poteva avvicinare di un passo alla tomba. Forse oggi non rischiamo più di intossicarci dipingendo un tramonto, ma possiamo ancora ammirare la bellezza di quei gialli letali sulle tele dei grandi maestri, consapevoli del prezzo che alcuni artisti hanno pagato per regalarci la loro arte.
Puoi scoprire di più sui grandi maestri del passato e sulle loro opere nella Novità 2025 Chimica per l’arte di Edizione Calderini.
Trasformare la classe in laboratorio per aiutare i bambini e le bambine ad ambientarsi, a conoscersi e a prendere confidenza con l’ambiente scolastico attraverso l’uso del quaderno dell’accoglienza.
Partiamo dall’idea che il quaderno non deve ridursi a mero strumento di intrattenimento o a un semplice pretesto per un’attività pratica; attraverso le indicazioni dell’insegnante lo scopo è la sensibilizzazione del bambino/a (e dell’adulto che lo accompagna) verso l’oggetto-libro, verso l’ascolto attivo, l’osservazione e la curiosità che il quaderno riesce a suscitare.
Le attività pratiche che il quaderno contiene mirano a rafforzare la conoscenza attivando vari sensi, rielaborando le immagini osservate, tagliando e costruendo con i propri strumenti: le mani. La carta, la colla, i pastelli, le forbici, il movimento, il gioco di ruolo… dipende dall’attività proposta.
I suggerimenti, le idee e gli esempi offriranno diversi strumenti tra cui scegliere in base alle proprie attitudini, dando libertà sul soggetto da realizzare e sulla modalità di farlo.
Lo scopo principale è rafforzare l’armonia di gruppo e la conoscenza reciproca. Vogliamo che i bambinie le bambine apprendano con una tecnica artistica e creativa, che imparino giocando e divertendosi fin dal prino giorno. Scegliamo le illustrazioni da far realizzare. Seguiamo gli esempiforniti e offriamo loro tutto il necessario per sperimentare e fare propria quella tecnica, che diventerà un’ulteriore risorsa per esprimersi e raccontarsi e … apprendere passo dopo passo.
Nell’articolo proposto si trovano le diverse attività da proporre ai piccoli durante la prima settimana di frequenza della scuola primaria; possono essere spunti utili per tutti e tutte le insegnanti alle prese con una prima.
Ma perché no, anche per i genitori che desiderino accompagnare il lavoro delle insegnanti e incoraggiare i propri bimbi e bimbe con attività adatte allo scopo.
Buon lavoro!
Buon lavoro a tutti i bambini e a tutte le bambine con Magica Matilde.
Se pensi che la geologia sia solo lo studio delle rocce sappi che ti sei fatta/o un’idea completamente sbagliata e che le cose non potrebbero essere più diverse di così. Diventare geologi, infatti, significa contribuire alle sfide attuali e future relative agli scenari del cambiamento climatico e della transizione energetica.
RISCHI NATURALI: Non solo prevenzione ma anche innovazione
L’Italia è un territorio geologicamente giovane, variegato nelle litologie e attivo sia dal punto di vista tettonico che vulcanico. Sebbene abbia delle dimensioni modeste in confronto ad altri paesi, presenta una variabilità morfoclimatica enorme, oltre a collocarsi all’interno di un’area, quella del Mediterraneo, che ormai da tempo sappiamo essere laboratorio di osservazione per gli eventi estremi del cambiamento climatico. Insomma, l’Italia ha tutte le carte in regola per essere esposta a qualsiasi tipo di rischio naturale.
La buona conoscenza geologica di fenomeni quali frane, alluvioni e terremoti è pertanto essenziale, ma insufficiente. Ecco perché il/la geoscienziato/a moderno/a è chiamato/a a studiare il territorio non solo per valutare la pericolosità di questi eventi ma anche per proporre soluzioni efficaci per la sicurezza di infrastrutture e in generale degli insediamenti umani.
Oggi il/la geologo/a non opera più solo guardando alla sfera naturale dei processi, ma li contestualizza in quello che è un territorio sempre più urbanizzato che porta su di sé il peso di scelte di pianificazioni territoriali errate avvenute nei decenni successivi al secondo dopoguerra.
Ok, ma in che modo svolge questo tipo di analisi?
Immagini satellitari, software, linguaggi di programmazione e strumenti di GeoAI (Geospatial Artificial Intelligence) oggi, per molti/e geologi e geologhe, sostituiscono bussola e martello, richiedendo si, un approccio multidisciplinare e uno sforzo di comprensione che verte sulle sfere dell’informatica e della statistica ma che in mano ad un/a professionista del settore rappresentano la cassetta degli attrezzi che da qui ai prossimi anni si rivelerà sempre più essenziale!
Dalla roccia, ai minerali fino all’interruttore della luce di casa nostra: ecco come la geologia entra nelle nostre case.
Ma quindi il/la geologo/a non studia più le rocce?
Certo che sì, ma il suo ruolo è estremamente variegato ed ha anche a che fare con la nostra quotidianità e la sicurezza del nostro territorio. Ad esempio, oggi più che mai dipendiamo dall’energia e ne abbiamo bisogno per qualsiasi cosa. Dall’uso semplice e quotidiano dei dispositivi elettronici, passando per l’intero sostegno della rete dei trasporti, fino al monitoraggio del territorio. Insomma, garantirci energia continua e pulita è una questione anche di sicurezza nazionale.
Eppure, non esiste una singola fonte energetica che non abbia a che fare in qualche maniera con il settore geologico. Forse non li vedi all’interno degli impianti energetici, ma i geologi sono il primo tassello alla base del sistema che passa dal reperimento della fonte energetica al suo arrivo nelle nostre case. Se fino ad oggi hai pensato che tale professionista fosse solo coinvolto/a nella ricerca del petrolio ti sbagliavi. Garantire energia pulita sempre e costantemente è la grande sfida della transizione energetica e vede in prima linea nel dietro le quinte proprio questi/e scienziati/e.
In particolar modo è la ricerca di materiali critici come litio, nichel, cobalto e terre rare, necessari per la produzione di dispositivi elettronici e fonti rinnovabili, ad essere affidata proprio ai/alle geoscienziati/e.
Ma cosa c’entrano questi elementi chimici con le fonti di energia pulita?
Vengono utilizzati, per esempio, per produrre le batterie dei veicoli elettrici, per la costruzione degli accumulatori richiesti per modulare la produzione discontinua della maggior parte delle fonti rinnovabili o per la produzione di magneti permanenti per le turbine eoliche.
In sintesi, sono indispensabili per l’elettrificazione dei trasporti, lo sviluppo delle energie rinnovabili e il miglioramento dei sistemi di accumulo, contribuendo direttamente alla decarbonizzazione e alla lotta contro il cambiamento climatico. In questo contesto, però, l’attento sfruttamento di queste risorse è essenziale per non rischiare contaminazioni ambientali ed esporre la popolazione a rischi per la salute umana. Ecco, quindi, che i/la geologi/he rivelano, anche in questo settore, la loro importanza identificando giacimenti, valutando la sostenibilità delle estrazioni e proponendo alternative per ridurne l’impatto ambientale.
Scegliere di studiare geologia significa entrare a far parte di una comunità di esperti ed esperte che, con conoscenza e responsabilità, contribuisce a costruire un futuro più sicuro, sostenibile e rispettoso.
Silvia Ilacqua è Geologa e Dottoranda presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II, specializzata nell’uso del GIS e del Remote Sensing per lo studio e la gestione dei paesaggi costieri. Svolge da anni l’attività di Divulgatrice Scientifica sia sul campo che online sensibilizzando i giovani ai temi geologici e ambientali e avvicinando il pubblico alla figura del geologo.
Il 2 aprile 2025, la Chiesa cattolica commemorerà il XX anniversario della morte di San Giovanni Paolo II, il Papa pellegrino dichiarato “Santo subito” dai fedeli nel giorno della sua morte e durante i suoi funerali.
Ma chi era … e perché era importante?
Karol Wojtyla, il suo nome di battesimo, è nato a Wadowice in Polonia il 18 maggio 1920. È diventato papa nel 1978 col nome di Giovanni Paolo II, il primo papa non italiano (inoltre, parlava fluentemente 14 lingue!) a governare il Vaticano in più di 500 anni e il suo regno, con i suoi 26 anni, fu il secondo più lungo nella storia papale.
Giovanni Paolo II aveva avuto una vita difficile. Aveva perso sua madre all’età di 8 anni, suo fratello quando ne aveva 12 e suo padre a 20. “Non ero presente alla morte di mia madre, non ero presente alla morte di mio fratello, non ero presente alla morte di mio padre”, dirà dopo quasi 40 anni. “A 20 anni avevo già perso tutte le persone che amavo”.
Proprio in quegli anni della gioventù, i nazisti avevano occupato la Polonia. Wojtyla lavorava come fattorino nei ristoranti e come manovale per non essere deportato in Germania. Nel 1942 iniziò a studiare, in segreto, in un seminario clandestino.
Più volte scampò alla morte in strani incidenti ed evitò anche la Gestapo, cosa che per lui confermò la sua vocazione a diventare prete.
Durante il regime nazista, mentre era ancora seminarista, gli viene attribuito il merito di aver salvato la vita a diversi bambini ebrei, cosa che gli valse la medaglia di “Giusto tra le Nazioni”.
Ordinato sacerdote nel 1946, studiò teologia alla Pontificia Università dell’Angelicum di Roma. Insegnò etica all’università di Cracovia, conseguì un secondo dottorato in filosofia e scrisse poesie, opere teatrali e articoli su questioni ecclesiali.
Nel 1958, all’età di soli 38 anni, divenne il vescovo più giovane della Polonia; a 44 anni nel 1964, arcivescovo di Cracovia; a 58 era il papa più giovane degli ultimi 132 anni.
Giovanni Paolo II desiderava rendere la Chiesa più amorevole e accessibile, pur rimanendo un papa conservatore, ben saldo ai dogmi della Chiesa Cattolica di cui era propagatore e difensore.
Papa Giovanni Paolo II ha scritto 12 encicliche, proclamato santi 280 beati, presieduto 12 sinodi dei vescovi, creato 157 cardinali, compiuto viaggi pastorali in Italia e all’estero per un totale di 1.118.130 chilometri, come se avesse percorso circa 27 volte il globo terrestre.
Si è rivolto anche ai giovani! Nel 1984 ha istituito la Giornata Mondiale della Gioventù, che il Vaticano ha riconosciuto come il più grande raduno papale con i giovani mai realizzato.
Sei ore prima della morte, Giovanni Paolo II, nella sua lingua polacca sussurrava con voce fragile queste parole: ‘Lasciatemi andare alla Casa del Padre’.
Il 2 aprile 2005 alle ore 21,37, Giovanni Paolo II moriva. Tutto il mondo pianse.
E molti, tra la folla immensa presente al suo funerale, già invocavano la sua santità. La Chiesa universale lo canonizzerà il 27 aprile 2014 e noi lo ricordiamo con queste parole, oggi, dopo quasi 20 anni dalla sua morte.
Cosa significa davvero essere un monaco buddista? Come si svolge la loro giornata e quali sono i principi che guidano la loro esistenza?
La vita monastica è scandita da una routine rigorosa, ma colma di significato. Ogni giornata segue un ritmo preciso, progettato per favorire la pratica della consapevolezza e della disciplina interiore.
L’Alba e la Meditazione
La giornata inizia molto presto, spesso intorno alle 4 o 5 del mattino. Prima ancora che il sole sorga, i monaci si riuniscono per la prima meditazione della giornata. Seduti in silenzio, concentrano la mente sul respiro, sui mantra o sulla contemplazione della natura dell’esistenza. Questo momento è essenziale per coltivare la calma interiore e prepararsi alla giornata.
La Questua e il Pasto
Dopo la meditazione, i monaci si dedicano alla questua del cibo, un rituale antico ancora praticato in molti paesi asiatici, come Thailandia, Myanmar e Sri Lanka. Con le loro ciotole per le elemosine (alms bowl), camminano a piedi scalzi nei villaggi, ricevendo offerte di cibo dai fedeli. Questo gesto non è solo un modo per nutrirsi, ma rappresenta anche un’opportunità per la comunità laica di praticare la generosità (dāna), uno dei pilastri del Buddismo.
Il pasto principale viene consumato prima di mezzogiorno, poiché i monaci, secondo la tradizione, non mangiano dopo questo orario. Il cibo viene accettato con gratitudine, senza preferenze o richieste particolari: il monaco impara così a non essere attaccato ai piaceri del palato e a sviluppare l’equanimità.
Dopo il pasto, i monaci dedicano tempo allo studio dei testi sacri e agli insegnamenti del Buddha. Alcuni leggono i sutra (i discorsi del Buddha), altri ascoltano lezioni dai monaci più anziani, mentre altri ancora praticano la recitazione di preghiere e mantra. Nei monasteri dove vivono anche studenti o praticanti laici, i monaci possono tenere lezioni o guidare sessioni di meditazione per i visitatori.
Lavoro e Servizio Comunitario
Essere monaci non significa solo meditare e studiare: molte ore della giornata sono dedicate a lavori pratici. A seconda della tradizione e della posizione del monastero, i monaci possono occuparsi della manutenzione del tempio, della pulizia, della cucina o della cura del giardino. In alcune comunità, si dedicano anche a opere sociali, come l’assistenza ai poveri o l’insegnamento nelle scuole.
Meditazione Serale e Riposo
La giornata si conclude con un’altra sessione di meditazione e preghiera collettiva. In questo momento, i monaci riflettono sulle proprie azioni della giornata, recitano mantra di benevolenza e si preparano al riposo. Dopo il tramonto, il monastero si avvolge in un silenzio profondo, interrotto solo dal suono del vento o dai passi discreti di chi ancora pratica la meditazione notturna.
Le Regole della Vita Monastica
Diventare monaco buddista significa abbracciare uno stile di vita basato su principi etici molto rigidi. Il codice monastico, noto come Vinaya, stabilisce regole precise che variano a seconda della tradizione. Tuttavia, ci sono alcuni precetti fondamentali che tutti i monaci seguono:
Non uccidere nessun essere vivente.
Non rubare né prendere ciò che non è dato.
Non avere relazioni sessuali.
Non mentire né usare parole dannose.
Non consumare sostanze intossicanti.
Non mangiare dopo mezzogiorno.
Non partecipare a spettacoli mondani o intrattenimenti frivoli.
Non usare profumi, gioielli o abiti decorativi.
Non dormire in letti alti e lussuosi.
Non maneggiare denaro.
Queste regole servono a coltivare il distacco dai desideri materiali e a favorire la concentrazione sulla pratica spirituale.
Molti monaci scelgono questa vita per il desiderio di trovare una pace più profonda, di comprendere la natura della sofferenza e di aiutare gli altri nel loro percorso spirituale. Alcuni entrano nei monasteri da giovani, spesso per volontà delle famiglie, mentre altri lo fanno da adulti, dopo aver vissuto nel mondo e sentito il bisogno di un cambiamento radicale.
In alcune culture, diventare monaco anche solo per un breve periodo (ad esempio per alcuni mesi o anni) è considerato un atto di grande valore spirituale. In paesi come la Thailandia, molti giovani uomini trascorrono un periodo in monastero prima di tornare alla vita laica.
La vita dei monaci buddisti può sembrare austera agli occhi di chi è abituato al comfort e alla velocità del mondo moderno. Eppure, questa esistenza è colma di serenità, disciplina e consapevolezza. Ogni gesto, ogni passo, ogni respiro è un’opportunità per approfondire la comprensione della realtà e liberarsi dalla sofferenza.
Non tutti sono destinati a diventare monaci, ma chiunque può imparare qualcosa dal loro stile di vita: la semplicità, la gratitudine, il valore del momento presente. Forse, nel nostro mondo frenetico, potremmo trovare un po’ di pace anche solo fermandoci per un attimo, respirando profondamente e osservando il silenzio che ci circonda.
Per approfondimenti, vai alla rubrica Storie in busta della rivista Raggi di Luce.
Il 27 febbraio apre le porte a Palazzo Reale la mostra Art Déco. Il trionfo della modernità, per celebrare lo “Stile 1925” o Art Déco, movimento che ha segnato l’arte e il design internazionali del primo dopoguerra. Ne parliamo con il curatore, il professor Valerio Terraroli.
Professor Terraroli, nel 2025 si celebra il centenario dell’Exposition internationale des arts décoratifs et industriels modernes di Parigi. In che modo questa mostra a Palazzo Reale rende omaggio a quell’evento?
L’Esposizione del 1925 ha sancito la nascita di uno stile destinato a influenzare profondamente le arti decorative e l’industria del design: l’Art Déco. Con Art Déco. Il trionfo della modernità, vogliamo restituire al pubblico l’atmosfera di quell’epoca straordinaria, evidenziando come l’Italia abbia giocato un ruolo di primo piano nel definirne l’identità. La mostra esporrà oltre 250 opere, dagli arredi ai gioielli, dalla moda alla grafica pubblicitaria, dimostrando come questo stile fosse una perfetta sintesi tra tradizione artigianale e innovazione tecnologica.
Quali sono i temi principali della mostra?
Il percorso espositivo affronta diversi aspetti dell’Art Déco, contestualizzandolo nella società europea degli anni Venti. Non solo bellezza e lusso, ma anche energia e progresso. Il decennio tra le due guerre mondiali è stato un periodo di grande trasformazione: dalle prime autostrade italiane ai treni veloci, fino alla nascita di Hollywood e alla diffusione della radio. La mostra intende raccontare questa epoca attraverso le sue manifestazioni artistiche più iconiche, ma anche attraverso le contraddizioni di una società sospesa tra ottimismo e fragilità.
L’Art Déco ha influenzato numerosi ambiti, dalla moda all’architettura. Come emerge questo nella mostra?
Uno degli elementi più affascinanti dell’Art Déco è la sua trasversalità. Il gusto per la geometria, la simmetria e l’opulenza ha permeato non solo le arti decorative, ma anche la moda, l’oreficeria, il design industriale e l’architettura. In mostra avremo pezzi unici provenienti da collezioni italiane e internazionali, come le creazioni in ceramica di Gio Ponti per Richard-Ginori, le vetrate artistiche di Vittorio Zecchin e gli abiti haute couture dell’epoca. Inoltre, un’attenzione particolare sarà dedicata al ruolo della donna negli anni Venti, con una sezione sulla moda e sull’emancipazione femminile.
Quali sono alcune delle opere più significative esposte?
Tra le opere di punta ci sono i capolavori di Gio Ponti, come il monumentale vaso La casa degli efebi operosi e neghittosi, esposto a Parigi nel 1925, e le celebri Ciste conservate nei Musei del Castello Sforzesco. Non mancano i vetri di Paolo Venini e i gioielli di Alfredo Ravasco. Inoltre, la mostra presenta un’importante selezione di mobili, oggetti d’arredo, tessuti e manifesti pubblicitari, che testimoniano l’energia creativa di un’epoca irripetibile.
Gio Ponti, La casa degli efebi, 1925, orcio in maiolica policroma, Società Ceramica Richard-Ginori (Doccia, Sesto Fiorentino), h. 78 x diam. 76 cm, Museo Ginori, Sesto Fiorentino. Il monumentale vaso, già intitolato Gli efebi operosi e gli efebi neghittosi, fu l’opera di punta della manifattura, esposta nel 1925 a Parigi insieme al pendant La conversazione classica.
Gio Ponti, La conversazione classica, 1925, cista in porcellana e oro a punta d’agata, Società Ceramica Richard-Ginori (Doccia, Sesto Fiorentino), h. 59 x diam. 30,5 cm, Museo Ginori, Sesto Fiorentino. Esposta nel 1925 a Parigi. La cista era un contenitore cilindrico in bronzo con un coperchio la cui impugnatura era costituita da piccole figure umane, utilizzato in età etrusca per contenere la dote delle figlie. Ponti ne ripropone il modello per produrre preziose porcellane destinate a prestigiosi doni di nozze.
Quali enti e istituzioni hanno contribuito alla realizzazione della mostra con i loro prestiti?
La mostra è stata resa possibile grazie alla collaborazione con numerose istituzioni e collezioni museali. Fondamentale è stato il contributo del Museo Ginori di Sesto Fiorentino, che ha prestato opere di Gio Ponti, tra cui il celebre Centrotavola per il Ministero degli Esteri. Altri prestiti provengono dal Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza, dalla Wolfsoniana di Genova e dalla Fondazione Vittoriale degli Italiani. A livello internazionale, un apporto significativo è giunto dal Musée des Années Trente di Boulogne-Billancourt. Importanti collaborazioni sono state attivate anche con i Musei del Castello Sforzesco, il Museo Poldi Pezzoli, Palazzo Morando | Costume, Moda Immagine e il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia “Leonardo da Vinci” di Milano.
Marcel Bourin, Diana saettante con piccole antilopi, 1925, Fusione in bronzo parzialmente dorata, 67 × 42,5 × 13 cm, Gardone Riviera, Fondazione Il Vittoriale degli Italiani, Prioria, Stanza della Musica o Stanza di Gasparo. Esposta nel 1925 a Parigi. L’opera, acquistata da Gabriele d’Annunzio, fu collocata dal poeta su un basamento parallelepipedo in legno dipinto di nero e su un lato venne fissata una placca in rame sbalzato e argentato realizzata da Napoleone Martinuzzi, raffigurante un Centauro saettante.
L’esposizione include anche installazioni multimediali. Come contribuiranno a coinvolgere il pubblico?
Abbiamo voluto creare un’esperienza immersiva. Le installazioni multimediali curate da Storyville aiuteranno i visitatori a calarsi nell’atmosfera dell’epoca, con filmati d’archivio, fotografie e ricostruzioni degli ambienti. Inoltre, il progetto espositivo comprende una sezione dedicata all’architettura ferroviaria Art Déco, con un focus sul Padiglione Reale della Stazione Centrale di Milano, realizzato in collaborazione con la Fondazione FS Italiane.
Quali iniziative parallele sono previste nel territorio milanese in occasione della mostra?
Oltre all’esposizione a Palazzo Reale, sono previste diverse iniziative che coinvolgeranno il territorio milanese. In collaborazione con la Fondazione FS Italiane e 24 ORE Cultura, saranno organizzati tour guidati alla scoperta degli edifici e degli interni Art Déco presenti in città, sia a piedi che in bicicletta. Inoltre, il Museo delle Arti Decorative del Castello Sforzesco ospiterà una selezione di porcellane di Gio Ponti provenienti dal Museo Ginori di Sesto Fiorentino, offrendo un ulteriore approfondimento sulla produzione ceramica dell’epoca. Queste iniziative permetteranno al pubblico di esplorare in modo più ampio e immersivo l’impatto dell’Art Déco sulla città di Milano.
Perché dovremmo visitare questa mostra?
Perché offre un’occasione unica di immergersi in un’epoca straordinaria che ha lasciato un segno indelebile nella storia del design e delle arti decorative. È un viaggio attraverso il lusso, l’eleganza e l’innovazione di un periodo che ha saputo coniugare estetica e funzionalità in maniera straordinaria. Inoltre, grazie alla varietà delle opere esposte e agli approfondimenti multimediali, ogni visitatore potrà trovare spunti di riflessione e meraviglia, indipendentemente dal proprio background culturale.
Per approfondire
Per informazioni sugli orari di apertura e sulle modalità della visita, consulta il sito di Palazzo Reale di Milano.
Per approfondire l’argomento si veda V. Terraroli, Con gli occhi dell’arte, volume 5, Sansoni per la Scuola
La seconda prova scritta dell’Esame di Stato rappresenta un momento cruciale per valutare le competenze acquisite dagli studenti degli Istituti Alberghieri in un ambito di fondamentale importanza per la sicurezza alimentare e la tutela dei consumatori: la corretta gestione del sistema HACCP e la comunicazione degli allergeni.
Le probabilità che l’insegnante di Scienza e cultura dell’alimentazione possa essere coinvolto nella stesura di una prova riferita a questo ambito sono elevate, in quanto il terzo degli otto “nuclei tematici fondamentali d’indirizzo* correlati alle competenze” fa esplicito riferimento alla “Programmazione e attivazione degli interventi di messa in sicurezza nella lavorazione di prodotti e/o nell’allestimento di servizi: dalle procedure dei piani di autocontrollo all’implementazione della prevenzione dei rischi sul luogo di lavoro, alla connessione tra sicurezza, qualità e privacy”.
I frequenti casi di cronaca di intossicazioni alimentari o reazioni allergiche dovute a errori nella gestione degli allergeni evidenziano come una corretta preparazione degli studenti su queste tematiche rappresenti un passaggio formativo facilmente inquadrabile anche in riferimento allo svolgimento di tematiche trasversali di Educazione civica.
Nello specifico, il sistema HACCP (Hazard Analysis and Critical Control Points), disciplinato dal Regolamento (CE) n. 852/2004, rappresenta un approccio preventivo e sistematico alla sicurezza alimentare. Esso si basa sull’identificazione e la valutazione dei pericoli associati a ogni fase del processo produttivo, dalla ricezione delle materie prime alla somministrazione del prodotto finito.
La corretta applicazione del sistema HACCP è un requisito imprescindibile per tutte le attività del settore alimentare, dalla produzione alla somministrazione.
L’aumento delle intolleranze e delle allergie alimentari, inoltre, ha reso la gestione degli allergeni una sfida cruciale per la ristorazione moderna. Il Regolamento (UE) n. 1169/2011, relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori, ha infatti introdotto l’obbligo di indicare la presenza di allergeni negli alimenti.
Da un punto di vista squisitamente didattico, i punti chiave per un’adeguatapreparazione della seconda prova scritta dell’EdS sono riferibili a:
principi dell’HACCP: analisi dei pericoli, individuazione dei punti critici di controllo (CCP), definizione dei limiti critici, procedure di monitoraggio, azioni correttive, verifica e documentazione;
applicazione pratica: simulazione di casi studio in diversi contesti (ristorazione, produzione, distribuzione), identificando i pericoli specifici e definendo le relative misure preventive;
conoscenza degli allergeni più comuni (elencati nell’allegato II del Regolamento UE n. 1169/2011) e delle loro caratteristiche;
modalità di comunicazione degli allergeni (menù, cartelli, informazioni verbali), con un focus sulla chiarezza, completezza e accessibilità delle informazioni.
Dato che la tutela del consumatore in materia di salubrità degli alimenti e potenziale presenza di allergeni è un diritto fondamentale, sancito sia a livello nazionale che europeo, le autorità competenti (come, ad esempio, ASL e NAS) effettuano controlli periodici per verificare il rispetto delle normative e sono tenuti a intervenire in caso di segnalazioni di non conformità.
La preparazione da garantire agli studenti, pertanto, può includere espliciti riferimenti al quadro sanzionatorio: la mancata o errata applicazione delle normative in materia di HACCP può comportare sanzioni severe per gli OSA. Il Decreto Legislativo n. 193/2007, che disciplina le sanzioni amministrative in materia di sicurezza alimentare, prevede infatti sanzioni pecuniarie che variano da 1.000 a 6.000 €.
Altrettanto significativo è il quadro sanzionatorio previsto dalle normative in vigore in Italia in riferimento alla comunicazione degli allergeni. È importante che i futuri professionisti abbiano chiaro che, se un cliente dovesse subire uno shock anafilattico a causa della mancata o errata comunicazione della presenza di allergeni in un alimento somministrato, l’operatore del settore alimentare potrebbe incorrere in diverse responsabilità legali:
responsabilità civile: l’operatore potrebbe essere chiamato a risarcire i danni subiti dal cliente, sia patrimoniali (spese mediche, mancato guadagno) sia non patrimoniali (dolore, sofferenza, stress). L’importo del risarcimento può variare in base alla gravità delle conseguenze e alla capacità economica dell’operatore;
responsabilità penale: nei casi più gravi, come ad esempio se lo shock anafilattico dovesse causare lesioni gravi o addirittura il decesso del cliente, l’operatore potrebbe essere accusato di lesioni personali colpose o omicidio colposo. Le pene previste per questi reati possono variare dalla reclusione alla multa, in base alla gravità del fatto e alle circostanze specifiche;
responsabilità amministrativa: oltre alle sanzioni pecuniarie previste dal Decreto Legislativo n. 193/2007 per la mancata o errata indicazione degli allergeni (da 2.000 a 16.000 euro), l’operatore potrebbe subire ulteriori sanzioni amministrative, come la sospensione o la revoca dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività.
Consigli per la preparazione degli studenti
Garantire un’adeguata formazione ai maturandi è pertanto un compito di fondamentale importanza, che rende necessaria l’adozione di metodologie didattiche attive e coinvolgenti, che prevedano:
simulazioni di situazioni reali, in cui gli studenti devono applicare le conoscenze acquisite;
analisi di casi studio, tratti dalla cronaca o dalla pratica professionale, per comprendere le conseguenze di non conformità igienico-sanitarie e analisi di sentenze di tribunali relative a casi di responsabilità civile o penale per mancata o errata comunicazione degli allergeni;
incontri con esperti del settore (avvocati, medici, rappresentanti delle associazioni dei consumatori) per approfondire gli aspetti legali e sanitari;
role playing, per simulare situazioni reali, in cui gli studenti devono gestire le richieste dei clienti in merito agli allergeni e affrontare eventuali emergenze;
visite didattiche a strutture del settore alimentare, per osservare l’applicazione pratica delle normative.
In conclusione, la tanto agognata “maturità” dovrebbe prevedere l’acquisizione della consapevolezza del fatto che la corretta gestione degli allergeni è tanto un obbligo di legge, quanto un dovere etico e professionale nei confronti dei consumatori.
La salute e la sicurezza dei clienti, infatti, dipendono dalla competenza e dalla responsabilità degli operatori del settore alimentare.
Questi due argomenti sono affrontati in modo completo nella nuova edizione 2025 del corso Scienza e cultura dell’alimentazione, di Luca La Fauci, edito da Markes.
In particolare, segnaliamo:
Volume classe terza, Unità 1 (Introduzione allo studio degli alimenti), Capitolo 2: Gestire in sicurezza gli alimenti
Volume classe quarta, Unità 4 (Imballare ed etichettare gli alimenti), Capitolo 14: Le etichette alimentari
Volume classe quinta, Unità 1 (Igiene e sicurezza degli alimenti), Capitolo 6: Sicurezza alimentare: normativa, controlli e sistema HACCP
Volume classe quinta, Unità 3 (Dieta razionale ed equilibrata nelle principali patologie), Capitolo 14: Allergie e intolleranze alimentari.
L’autore
Luca La Fauci è autore, per Rizzoli Education, di testi scolastici dedicati alle discipline Scienza e Cultura dell’Alimentazione e Scienza degli Alimenti.
* ALLEGATO G (Quadro di riferimento per la redazione e lo svolgimento della seconda prova scritta dell’esame di Stato – ISTITUTO PROFESSIONALE Indirizzo: Enogastronomia e Ospitalità alberghiera) del D.M. 15/06/2022 “Decreto recante i quadri di riferimento e le griglie di valutazione per la redazione e lo svolgimento della seconda prova scritta dell’esame di Stato conclusivo del secondo ciclo di istruzione negli istituti professionali ai sensi dell’articolo 17, commi 5 e 6, del decreto legislativo 13 aprile 2017, n. 62”
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