La storia medievale in sette oggetti

Gli oggetti sono sempre più un campo di interesse per gli storici: sin da quando la storia, grazie alla scuola delle Annales di Marc Bloch (1886-1944), Lucien Febvre (1878-1956) e Fernand Braudel (1902-1985), ha iniziato a prestare attenzione alla cultura materiale e, con essa, non solo alle classi dirigenti, ma anche ai ceti contadini e agli oppressi. Le cose consentono di ricostruire i quadri quotidiani delle culture delle epoche passate, ma anche di ricostruire il cosmo affettivo e simbolico delle persone. Oggetti amati, magari passati di generazione in generazione, oggetti usati per esprimere gli ideali religiosi e devozionali oppure per segnare gerarchie sociali; oggetti frutto di innovazioni tecnologiche oppure di scambi tra civiltà differenti; oggetti come merci attraverso cui misurare le economie, i consumi e le mode: attorno alle cose si organizzano le società delle epoche passate.

E, non dimentichiamolo, gli oggetti hanno anche una notevole valenza didattica, poiché, se è vero, come sostiene Vittorio Marchis (Storia di cose semplici, 2008), che la memoria ha bisogno di un supporto materiale e gli oggetti costituiscono uno dei veicoli che, grazie alla loro capacità di esprimere simboli e metafore, meglio consentono di fissare i ricordi, una simile potenzialità può essere senz’altro sfruttata nell’insegnamento.

Può dunque la storia del millennio medievale essere riassunta in dieci oggetti? Precisando che ogni scelta non può che essere arbitraria, proviamo tuttavia ad accettare la sfida, individuando alcuni oggetti che hanno avuto un ruolo importante nel medioevo o che possono essere usati nella didattica per spiegarne alcuni aspetti.

Il globo crucigero 

Il globo crucigero è senz’altro un oggetto del potere. A partire da Arcadio (377-408) e poi per tutto il medioevo, esso costituisce uno degli attributi degli imperatori, che quando vengono raffigurati ostentano nella mano destra. L’autorità imperiale è infatti per sua natura “universale” – un concetto chiave per la comprensione delle monarchie medievali – che ambisce cioè a imporsi non su un determinato territorio circoscritto, ma urbi et orbi, sul cosmo che dal globo è rappresentato. Il potere degli imperatori, sin dall’epoca tardoantica, già, timidamente, con Costantino e poi in maniera molto più marcata da Teodosio in poi, è anche connotato in forma cristiana: per questa ragione il globo degli imperatori è anche sovrastato da una croce, segno della natura divina cristiana del loro potere.

La tiara

La tiara è il copricapo indossato dai papi. Sin dall’alto medioevo esso costituiva un attributo di regalità, che faceva parte dell’armamentario ideologico a cui i pontefici facevano ricorso per ostentare il loro potere. La tiara compare già nella Donazione di Costantino, il falso prodotto fra VIII e IX secolo dagli intellettuali al servizio del papa per giustificare le ambizioni temporali della chiesa di Roma. Soltanto nel Basso medioevo, in corrispondenza con il processo di “monarchizzazione del papato” – quando cioè per la prima volta il pontefice diviene non più la più alta dignità ecclesiastica dell’Occidente, così come era durante l’alto medioevo, ma un vero e proprio sovrano dotato di un ampio potere politico – la tiara papale inizia a essere caratterizzata dalla presenza di alcune corone. Il primo a farne uso è Niccolò II (1058-1061), incoronato da Ildebrando di Sovana, il futuro Gregorio VII: la sua tiara aveva due corone, la prima delle quali recava la scritta “Corona del regno dalla mano di Dio”, la seconda “Diadema dell’impero dalla mano di Pietro”. Il potere del papa era ormai pronto per entrare in competizione con quello degli imperatori. Con Bonifacio VIII le corone diventarono addirittura tre.

La forchetta

La forchetta è oggi per noi un oggetto di uso quotidiano. Tuttavia, il suo successo non è per nulla scontato e per molto tempo è stato un utensile pressoché sconosciuto in Europa o limitato alle corti dei principi. Già nota in età tardoantica, la sua diffusione nell’Occidente medievale avviene soltanto a partire dall’XI secolo, quando inizia a essere documentata in varie località della Penisola. A Venezia, in particolare, la portò una principessa bizantina, Maria Argyropoulaina, che nel 1004, sposò il doge Giovanni Orseolo II. Nel fastoso banchetto delle nozze, mentre tutti i veneziani mangiavano con le mani, la giovane principessa sfoderò un’elegante forchetta d’oro con due rebbi, suscitando la perplessità degli astanti. Ancor più lenta fu l’affermazione dell’oggetto in Francia: la forchetta si impose soltanto nel corso dell’età moderna, secondo alcuni racconti introdotta alla corte dei re da Caterina de Medici, nel Cinquecento.

Il reliquario

Il reliquario è un oggetto pensato per contenere le reliquie, vale a dire i resti mortali dei santi. Il loro culto crebbe enormemente nel corso dell’alto medioevo, quando si creò un vero e proprio commercio di tali resti, spesso di dubbia provenienza: uno dei maggiori storici che se ne è occupato, André Vauchez, ha parlato addirittura di “invenzione delle reliquie”, per indicare come, più che la reale autenticità, si debba considerare i processi che le rendevano tali agli occhi dei devoti. I reliquari dell’Europa medievale contengono materiali originari di aree geografiche molto lontane tra loro e non è raro ritrovare, per esempio, materiali ossei provenienti da varie parti del Mediterraneo o tessuti prodotti persino in Cina. I reliquari informano dunque della storia della religiosa, ma anche di quella economica, poiché dimostrano come anche nell’alto medioevo le merci continuassero a circolare, anche a lunga distanza.

Le pentole in pietra ollare

Nell’alto medioevo le pentole di pietra ollare, prodotte in alcune località delle Alpi dove era localizzate le aree di estrazione di questo minerale particolarmente malleabile alla lavorazione, erano soggette a un’ampia commercializzazione. Per ottenere questi manufatti, nelle cave in altura venivano estratti blocchi di questo materiale, poi trasformati in cilindri e lavorati al tornio sul luogo. Il risultato era una pentola realizzata a partire da un unico blocco di pietra, la cui lavorazione permetteva di ripetere il processo formando recipienti via via sempre più piccoli, riducendo al minimo gli scarti di produzione e dunque lo spreco di materia prima. Resti di questi oggetti di uso comune sono stati trovati in numerose località del Mediterraneo e costituiscono una testimonianza dei commerci di quest’epoca.

La balestra

La storia del medioevo è anche una storia di oggetti pensati per la guerra, dagli scramasax, le spade dei longobardi, fino alle bombarde, le armi da fuoco che si affermano in Europa sin dal XIV secolo. Tra le armi più efficienti che si diffondono in quest’epoca c’è senz’altro la balestra: già nota nel mondo antico, il suo successo avviene nel corso del basso medioevo. Soprattutto nei comuni italiani, che facevano largo uso delle fanterie, essa prende piede: i balestrieri di Genova erano particolarmente rinomati.

L’orologio meccanico

L’orologio meccanico si diffuse in Europa tra la fine del XIII e i l’inizio del XIV secolo: non si trattava ancora di orologi portatili o di piccole dimensioni, ma di marchingegni di grandi dimensioni, di norma commissionati dai poteri pubblici e posizionati su campanili o torri. Anche il sistema utilizzato era ancora piuttosto semplice. Tra i più antichi ancora sopravvissuti c’è quello del campanile di Sant’Eustorgio di Milano, risalente all’inizio del Trecento. Al pari del mulino ad acqua, degli occhiali o dei bottoni, l’orologio meccanico è uno degli oggetti utili a dimostrare la notevole capacità di innovazione tecnologica del medioevo.

Per approfondire

  • Riguarda il live streaming;
  • Consigliamo la lettura di questi testi:
    • A. Feniello, A. Vanoli, Storia del Mediterraneo in 20 oggetti, Laterza, 2018.
    • C. Frugoni, Medioevo sul naso, Laterza, 2014.
    • V. Marchis, Storia di cose semplici, Springer Verlag, 2008. 

Scopri l’opera

  • Le porte della storia” di Riccardo Rao e Anna Però – La Nuova Italia – Rizzoli Education, 2022 – Testo di geostoria per la scuola secondaria di secondo grado

Fotografie della Resistenza

Dall’armistizio al tragico inverno del 1944

Il settembre del 1943 è un mese decisivo per l’Italia che sta combattendo la Seconda guerra mondiale. L’8 settembre viene reso noto l’armistizio alla popolazione e nello stesso giorno Vittorio Emanuele III e Badoglio fuggono verso Brindisi. Il 12 settembre i tedeschi liberano Mussolini dalla prigionia sul Gran Sasso e lo conducono da Hitler in Germania, dove conferma la sua fedeltà al Führer e definisce la creazione della Repubblica Sociale Italiana.

Da questo momento il Paese vive spaccato in due da una feroce guerra civile, segnata da scontri armati, rastrellamenti, rappresaglie che coinvolgono anche i civili.

Nel corso del 1944 gli Alleati avanzano, ma non rapidamente quanto dovrebbero. E così per la popolazione italiana che vive al di sopra della Linea Gotica l’inverno del 1944-1945 si trasforma nel periodo più tragico. Il freddo e la fame, i bombardamenti prolungati, le violenze dei nazifascisti (sempre più consapevoli che la loro sconfitta si avvicina) colpiscono duramente i civili. È soprattutto in questo frangente che i partigiani – attivi con azioni di sabotaggio e guerriglia sin dal 1943 – giocano un ruolo determinante per gli esiti del conflitto civile.

In occasione della festa della Liberazione, in classe possiamo invitare studentesse e studenti a ripercorrere la storia dei partigiani italiani attraverso alcune fotografie d’epoca. A partire da queste immagini potremo così delineare i tratti salienti della Resistenza italiana.

Chi sono i partigiani

I partigiani italiani sono un mondo eterogeneo: ex soldati che hanno abbandonato l’esercito dopo l’armistizio, antifascisti che da tempo vivono in clandestinità, donne e uomini comuni, spesso giovani, disposti a rischiare la vita per riconquistare la libertà. I primi gruppi di resistenza armata nascono in modo spontaneo, quindi si organizzano in brigate (spesso in base all’orientamento politico), che successivamente iniziano a coordinarsi tra di loro. Vivono nascosti nei luoghi più difficili da raggiungere dai nazifascisti e colpiscono di sorpresa, attaccando i reparti nemici.

In questa fotografia del 1945 vediamo un gruppo di partigiane e partigiani a Venezia con il pugno alzato. I loro abiti sono poveri e logori, alcuni di loro imbracciano un fucile. Al collo molti portano il fazzoletto rosso, simbolo della loro brigata.

Le montagne come rifugio

Durante la guerra molti partigiani si rifugiano sulle montagne, dove riescono a trovare ripari e luoghi in cui nascondersi dal nemico. I territori delle montagne sono infatti ben noti alla popolazione locale e ai partigiani, che vi si muovono con abilità, mentre i reparti tedeschi faticano a orientarsi. Inoltre i mezzi corazzati dei nazifascisti stentano a raggiungere i territori montani: in questo modo si riduce il divario militare tra le forze armate di Mussolini e Hitler e le forze partigiane, che con i loro attacchi rapidi ed efficaci mettono in crisi il nemico.

In questa fotografia vediamo un gruppo di partigiani che presidia una postazione sull’Appennino emiliano nel 1944.

Le donne: un ruolo di primo piano

Un ruolo di primo piano nella Resistenza è ricoperto dalle donne. Prestano soccorso agli uomini feriti, si occupano dei servizi logistici, forniscono i rifornimenti di viveri e di materiali, organizzano manifestazioni contro la guerra. Le più giovani svolgono la funzione di “staffetta”, cioè portano notizie e informazioni tra i vari gruppi partigiani. Molte donne, poi, sono combattenti armate e lottano in prima linea. 

Alla fine della guerra poche donne (35.000 contro 150.000 uomini) si vedranno riconosciute come partigiane combattenti, anche se nei fatti il loro impegno è stato molto più consistente.

In questa fotografia vediamo alcune donne partigiane armate per le vie di Milano nel 1945.

I rastrellamenti e gli eccidi fascisti

Nel corso della guerra, i nazifascisti compiono rastrellamenti ed eccidi ai danni di intere comunità di civili. Una delle prime e più feroci stragi avviene nel marzo del 1944, prima della liberazione di Roma da parte degli Alleati. Per punire un’azione compiuta dai partigiani in via Rasella in cui sono morti 33 militari tedeschi, i nazifascisti arrestano 335 persone scelte a caso tra la popolazione (con un rapporto di più di 10 civili per ogni soldato tedesco deceduto). Poco dopo le fucilano nei pressi di una vecchia cava, nota con il nome di Fosse Ardeatine

Nel corso della guerra i nazifascisti compiono altri massacri in diverse località, come a Sant’Anna di Stazzema, nei pressi di Lucca, in cui vengono uccise 560 persone, o a Marzabotto, vicino a Bologna, dove i morti sono più di 800.

In questa fotografia, che risale al 23 marzo del 1944, vediamo la lunga fila di civili rastrellati per le strade di Roma, all’indomani dell’azione partigiana in via Rasella. 

Una famiglia distrutta

I sette fratelli Cervi fanno parte di una famiglia di contadini che risiede nei pressi di Reggio Emilia. Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore (questi i loro nomi) sono convinti antifascisti e prendono parte attiva alla Resistenza. Nel novembre del 1943 vengono arrestati dai fascisti e durante la detenzione vengono torturati. Il 28 dicembre 1943 vengono fucilati come rappresaglia dopo l’uccisione, da parte di altri partigiani, di un segretario comunale fascista.

In questa fotografia vediamo la famiglia Cervi al completo: oltre ai sette fratelli vi sono due sorelle e, al centro, la madre e il padre. È proprio quest’ultimo, sopravvissuto, a raccontare insieme ad altri testimoni la tragica vicenda dei suoi figli.

La primavera porta la libertà

Con l’arrivo della primavera del 1945 gli Alleati riescono a superare la Linea Gotica. A questo punto i partigiani sono pronti per lanciare la rivolta generale. Il Comitato di Liberazione Nazionale invia ai vari gruppi un telegramma con un messaggio in codice divenuto celebre, che recita: “Aldo dice 26×1. Nemico in crisi finale”: è l’avvio dell’insurrezione. Il 25 aprile 1945 i ribelli si sollevano nelle grandi città come Milano, Torino e Genova, ancor prima dell’arrivo dell’esercito angloamericano. La Repubblica Sociale Italiana crolla. 

Nella fotografia si vede una formazione partigiana che avanza in Corso Ticinese a Milano, salutata dalla folla festante. La città è appena stata liberata.

Qualche spunto didattico

Prendendo spunto dalla ricorrenza della Liberazione, si possono proporre in classe diverse attività, lavorando sulle competenze di scrittura e di produzione orale e favorendo un coinvolgimento “emotivo” di ragazze e ragazzi.

  • Far scegliere a studentesse e studenti una fotografia del periodo della Resistenza (anche tra quelle qui proposte), chiedendo loro di “entrarvi dentro” con l’immaginazione, di guardarsi attorno osservando i dettagli e di esplorare lo spazio, ipotizzando di parlare con i personaggi ritratti e ascoltare ciò che si dicono tra di loro. Potranno così cimentarsi in un’attività di scrittura creativa.
  • Far realizzare un’intervista: ragazze e ragazzi potranno intervistare i loro nonni sul periodo della guerra e della Liberazione. Pur non avendola vissuta in prima persona per motivi anagrafici, i nonni possono riportare le vicende raccontate dai loro genitori. Una volta raccolte le risposte, potranno essere riferite al resto della classe, cercando di ricostruire insieme un quadro del vissuto di quell’epoca.
  • Organizzare un breve video-notiziario sulla Resistenza lavorando in piccoli gruppi: a partire dalle informazioni presenti nell’articolo, alcuni studenti si occupano di rielaborare i testi “trasformandoli” in notizie, altri le leggono mentre altri ancora si dedicano a filmarli; alcuni poi, alla fine, si occupano del montaggio del video, che può essere arricchito con immagini e musiche. 

Sitografia per approfondire

Un fiore con i pentamini

È possibile risolvere un problema difficile procedendo per prove ed errori?

Sì! Ci sono delle attività, come quella proposta in questo articolo, che richiedono proprio l’utilizzo di questa strategia risolutiva. Di fronte alla richiesta di comporre una figura, in questo caso un fiore, utilizzando i dodici pentamini (figure composte da cinque quadrati) i bambini posizionano i pezzi e li spostano fino a trovare la giusta collocazione. I bambini sono sollecitati a provare, sperimentare e verificare fino a individuare la soluzione al quesito. È  più semplice giungere alla soluzione se i diversi tentativi non sono casuali ma dettati da uno specifico ragionamento o da una riflessione sull’azione appena compiuta.

Uno degli aspetti interessanti di questo tipo di proposte è la visione dell’errore che non ha una valenza negativa e non viene posto in risalto, ma è contemplato dall’attività stessa. I bambini, utilizzando i pentamini manipolabili (fig. 1), possono iniziare a collocarli all’interno della sagoma (fig. 2) e quando si rendono conto che il percorso intrapreso non condurrà alla soluzione posso spostare uno o più pezzi e provare altre combinazioni. 

Ci sono poi delle scelte che agevolano l’individuazione della soluzione come quella di partire dagli spazi che possono essere ricoperti solo da uno specifico pentamino. Per esempio, per quanto riguarda il fiore, è consigliabile posizionare prima i quattro pentamini (a forma di Z, V, I,  L) nella parte inferiore, sullo stelo e sulle foglie (fig. 3).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In questo modo si escludono subito quattro pentamini che sicuramente non servono per ricoprire la superficie della corolla del fiore. La complessità del problema viene così ridotta: una parte del problema è infatti risolta, non resta che trovare la giusta collocazione agli otto pentamini rimasti provando e riprovando, procedendo per tentativi ed errori!

Energies renouvelables. Le premier restaurant solaire à Marseille

On sait déjà que l’énergie renouvelable connait un fort essor en France depuis quelques années. En 2020, elle représentait 19,1% de la consommation finale brute d’énergie, contre 9% en 2005. Cette donnée place aujourd’hui la France en 17ème position au sein de l’Union européenne. L’objectif du gouvernement est cependant celui d’atteindre 33% en 2030. 

Pour le Ministère de la Transition écologique, cette croissance est, en grande partie, due au développement rapide des biocarburants, des pompes à chaleur et de la filière éolienne.

La période à venir peut, si nous le voulons, être l’occasion d’un développement maitrisé. Et les expériences significatives se multiplient.

Il y a quelques années, face à la flambée des couts du pétrole, du gaz et de l’électricité, provoquée par les événements de ces derniers temps, et à une sorte de « réveil » écologique, Pierre-André Aubert, ingénieur en aérospatiale converti au métier de cuisinier, met au point un projet fou : un restaurant solaire utilisant directement la chaleur du soleil comme mode de cuisson.

Après plusieurs expériences dans des restaurants traditionnelles du PACA, en mai 2017 il ouvre une guinguette solaire dans le quartier écologique de Marseille, le Technopôle de Château-Gombert. 

Grâce au climat méditerranéen, l’idée de cuisiner avec un four solaire ne lui parait pas impossible. Un système de miroirs concentrateurs de lumière lui permet ainsi de réaliser une véritable plaque de cuisson. À partir de ce moment-là, le projet devient réalité : les premiers clients peuvent manger des plats cuisinés grâce à une énergie locale, propre, sans déchets et surtout sans émissions de carbone.

Et ce n’est pas tout : les produits utilisés sont locaux et de saison, et les bio-déchets organiques sont recyclés en compost pour enrichir et fertiliser les sols ou transformés en gaz.

Combien coute un repas « solaire » ?  Un menu complet entrée/plat/dessert ne dépasse pas les 20 euros.

Alors, êtes-vous prêts à vivre une expérience révolutionnaire ? 

Bibliographie 

Y volvieron las Fallas… con lágrimas, mascarillas y muchas ganas de fiesta

La pandemia ha impedido que se celebraran fiestas populares durante casi dos años. Sin embargo, con la bajada de la sexta ola, Valencia fue la primera capital española en recuperar una fiesta popular (había sido también la primera en suspenderla) después del parón de la pandemia, y lo hizo por todo lo alto.  

Las últimas Fallas habían sido en septiembre y con todo tipo de restricciones (toque de queda, limitación de aforos, pasaporte covid). En cambio, este año, miles de personas abarrotaron la plaza del Ayuntamiento para asistir a las mascletás y otras se reunieron en verbenas o en las disco- móviles presentes en las calles para festejar hasta la madrugada, incluso bajo la lluvia, estas Fallas casi normales: la principal recomendación era la de llevar la mascarilla al aire libre en caso de aglomeraciones y en interiores cuando se bebía y comía.

Estas Fallas estuvieron llenas de sorpresas. Algunas de ellas emotivas: muchos asistentes no pudieron reprimir las lágrimas durante la primera mascletá; y otras tiernas, como la vivida durante la ofrenda a la Mare de Déu, cuando una de las falleras desfiló ante la patrona dándole el pecho a su bebé. Una imagen natural que indica continuidad con una tradición secular. ¡Ojalá podamos vivir otras muchas escenas parecidas en otras muchas fiestas!

Alla scoperta degli ingredienti cosmetici: le regole, la sicurezza, le funzioni

Dal dentifricio alla crema da notte, passando per profumi, rossetti, shampoo e balsami: ogni prodotto cosmetico contiene ingredienti fondamentali che gli permettono di funzionare ed essere sicuro per la nostra salute.

Da essi dipendono, infatti, in larga parte sicurezza, stabilità e funzionalità del prodotto finito.

Eppure, come accade spesso ai prodotti dell’industria chimica, gli ingredienti cosmetici sono vittima di falsi miti che generano timori infondati e illusorie aspettative nel consumatore, quando dovrebbero invece essere riconosciuti come preziosi alleati.

Si pensa addirittura che un prodotto cosmetico sia migliore o più sicuro di altri se presenta solo ingredienti naturali o addirittura se non contiene alcuni ingredienti, secondo una cultura del “senza”. 

Cosa fare per evitare tutto questo? Da un lato dobbiamo diventare consumatori più consapevoli e informarci, senza cadere vittima di pregiudizi da pseudoscienze. Dall’altro, tutta la filiera deve supportare la consapevolezza del consumatore favorendo una corretta comunicazione e tenendo presente che quello che un consumatore vede è solo il prodotto cosmetico finito. 

Per essere inserito in un prodotto e svolgere le sue funzioni, ogni ingrediente cosmetico è oggetto di articolati processi di ricerca, di produzione e di verifica regolatoria. Questi passaggi operativi coinvolgono una filiera molto articolata e complessa che, partendo dalla chimica di base, passa attraverso la produzione di eccipienti, sostanze funzionali e fragranze per giungere alla produzione e al confezionamento del cosmetico pronto all’uso.

Ogni fase è attentamente controllata da un imponente impianto normativo, che prevede specifici e inderogabili requisiti. Ogni sostanza ammessa è sicura nelle quantità e nelle modalità d’uso secondo quanto stabilito dal Regolamento europeo sui prodotti cosmetici 1223/2009 che stabilisce nei propri allegati, con estrema chiarezza, quali sostanze sia lecito o meno utilizzare e con quali eventuali restrizioni.

La sicurezza e la trasparenza dell’ingrediente nei confronti dell’ambiente, dell’operatore e del consumatore è anche garantita dal Regolamento CE 1907/2006 «REACh» e dal Regolamento CE 1272/2008 «CLP».  

Per quanto riguarda il trend del «naturale», sappiamo bene che «naturale» e «sostenibile» sono due concetti che non necessariamente coincidono: una sostanza definita naturale può avere un impatto anche molto più importante di una sostanza di origine sintetica.  Per non cadere nell’errore di considerare invece tutto ciò che è di sintesi come pericoloso e nocivo, abbiamo a disposizione il Life Cycle Assessment (LCA), strumento che ci insegna a considerare tutti gli impatti di un prodotto nel suo intero ciclo di vita. 

Abbiamo quindi spiegato quanto sia sicuro l’uso degli ingredienti cosmetici, vediamo ora un esempio che riguarda una classe di ingredienti da tempo sulla bocca di tutti.

Parliamo dei conservanti che possono essere sostanze naturali, o di sintesi, aggiunte alla formulazione dei cosmetici per svolgere un’azione protettiva che rende il prodotto cosmetico sicuro dal punto di vista microbiologico durante tutto il suo periodo di utilizzo. Se i cosmetici non contenessero sostanze conservanti, sarebbero soggetti ad alterazioni che potrebbero provocare irritazioni, infiammazioni, infezioni della pelle, mettendo a rischio la nostra salute.

Fra i conservanti più criticati vi sono i «parabeni». In commercio si trovano cosmetici che affermano di esserne privi, lasciando intendere che tali prodotti  siano più sicuri di quelli che li contengono. È bene precisare che la definizione non è fondata su presupposti scientifici ma è solo una scelta di marketing; fra l’altro un claim del genere “senza parabeni” non è ammesso in quanto denigratorio di una classe di ingredienti autorizzati per legge e quindi lecitamente impiegati senza alcun rischio per il consumatore.

La qualità del colostro nella gestione della vitellaia

Il colostro è il primo secreto della ghiandola mammaria dei mammiferi dopo il parto. Si presenta come un liquido denso di colore giallastro con un contenuto di sostanza secca che mediamente è del 23,9%, pari al doppio rispetto al latte bovino (Hammon et al., 1987). Il colostro è completamente diverso rispetto al latte in quanto, la sua composizione è caratterizzata da principi nutritivi particolari.

Il colostro svolge tre principali funzioni:

  1. funzione immunizzante dovuta all’elevato contenuto di Immunoglobuline (Ig);
  2. funzione energizzante dovuta a un alto contenuto di Lipidi e di Vitamine liposolubili;
  3. funzione lassativa causata da un’elevata concentrazione del Magnesio.

La principale e fondamentale funzione del colostro è quella del trasferimento dell’immunità passiva dopo il parto in quanto il vitello nasce agammaglobulinico e quindi privo di un proprio sistema immunitario attivo. Questo avviene perché la placenta dei ruminanti è di tipo epitelio-coriale e quindi molto selettiva; infatti, non permette il passaggio degli anticorpi dalla madre al feto durante la gravidanza. Ulteriore fattore che rende difficoltoso il trasferimento dell’immunità passiva è la necessità di somministrare il colostro al vitello entro le prime 6 ore di vita (D. lgs. 126/2011). Il Vitello alla nascita presenta una mucosa enterica immatura, infatti, solo in questo momento, presenta la capacità di assorbire molecole di grandi dimensioni come le immunoglobuline colostrali. Con il passare delle ore questa capacità assorbente si esaurisce progressivamente fino a svanire completamente già dopo il primo giorno di vita. Anche questo aspetto diventa quindi un fattore limitante. É doveroso ricordare che solo il primo secreto della ghiandola mammaria può essere denominato colostro, in quanto già dalla seconda mungitura, il prodotto presenta una composizione diversa dal colostro e, questo liquido, viene chiamato latte di transizione.

La quantità somministrata deve essere di almeno 3 litri entro le prime 6 ore e almeno il 10-12% del peso vivo del vitello entro le 12 ore. Prima della somministrazione del colostro, è molto importante valutarne la qualità, che viene misurata in termini di concentrazione delle immunoglobuline. La densità del colostro deve risultare di almeno 50 g/L di immunoglobuline per avere effetti positivi sul vitello (Gottardo et al., 2020). Un colostro di buona qualità dovrebbe garantire almeno 150 g/L di Ig e, proprio per questo motivo, è molto importante misurarne la concentrazione con strumenti facili da usare ed economici quali il colostrometro o il rifrattometro in scala Brix (Ruminantia, 2022).

Il mancato trasferimento dell’immunità passiva (FPT – Failure of Passive Transfer), può portare un’elevato rischio di mortalità nei vitelli entro le prime due settimane di vita variabile tra l’8 e il 25% (Raboisson et al., 2016). L’insieme di questi accorgimenti gestionali garantisce l’incremento della redditività aziendale, infatti, si stima che il mancato trasferimento dell’immunità passiva comporta un impatto economico rilevante, stimato in 80 € per vitello in allevamento di vacche da latte (Raboisson et al., 2016).

Video suggeriti

I referendum sulla giustizia

Aprile 2022

Nel prossimo mese di giugno gli elettori italiani saranno chiamati alle urne per una consultazione referendaria incentrata sul tema della giustizia. Consultazione che è stata preceduta da un dibattito politico incentrato più sulle tre proposte referendarie bocciate dalla Corte costituzionale – proposte di forte impatto mediatico come eutanasia, legalizzazione della cannabis e responsabilità civile diretta dei magistrati – che sui cinque quesiti ammessi alla consultazione. L’autrice di questo articolo, Maria Giovanna D’Amelio, ci guida quindi alla scoperta di questi cinque referendum abrogativi, spiegandone in termini chiari i contenuti e le implicazioni pratiche in caso di approvazione.

Per approfondire

L’impatto del Pnrr sugli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’agenda 2030 dell’ONU

Aprile 2022

Il modello di sviluppo delineato nei piani della Commissione europea attraverso il programma “Next Generation EU” (NgEU) e il precedente “European Green Deal” è fortemente ispirato ai contenuti dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. Di conseguenza, il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) approntato dal Governo italiano nel quadro del NgEU è improntato al concetto di sostenibilità, declinato nelle sue componenti sociali, economiche e ambientali,  

In questo articolo di Olimpia Capobianco e Simona Diani andiamo quindi alla scoperta di questo importante aspetto del Pnnr, che lega la ripresa del nostro Paese e al più ampio destino della comunità mondiale.

L’articolo arricchisce il corso Società futura. Tutte le informazioni sul corso sono disponibili nel nostro catalogo online.

Una riflessione per un insegnamento dell’arte secondo una prospettiva di genere

Abbiamo ormai compreso come non sia da considerarsi neutro il racconto ininterrotto di profili maschili che, per anni, svolgiamo nelle classi quando insegniamo storia, letteratura, filosofia o storia dell’arte e di come, al contrario, possa essere molto condizionante a livello di percezione di sé e delle proprie capacità. Si tratta di una prospettiva che è importante, se non doveroso, correggere per il pericoloso insegnamento implicito che veicola.

Il punto è come correggere questa parzialità. La tentazione è spesso quella di cercare di integrare presenze femminili, anche a costo di andare a riscoprire personalità modeste, artiste dilettanti di scarso spessore, meritevoli solo d’averci provato – il che, soprattutto in determinati momenti storici, non è certo poca cosa – ma forse più rilevante a livello di biografia che non di professione. Così facendo, il rischio è di avallare l’idea, il bias cognitivo per usare un’espressione oggi molto usata, che la ragione per cui mancano donne è perché queste non siano di fatto in grado di creare grande arte.  

Allora ha forse più senso raccontare le ragioni di queste assenze, ovvero restituire il contesto, il sistema escludente che caratterizzava il mondo dell’arte: scuole, accademie e concorsi erano di fatto chiusi alla donne, e con loro il riconoscimento professionale, un titolo senza il quale non era possibile accedere alle committenze più prestigiose e remunerative. Ma non era solo questo, prima ancora c’erano da superare le resistenze che l’ambiente (la famiglia, la società) imponeva, un condizionamento che agiva in modo più subdolo, rispetto ai divieti manifesti delle Accademie, e quindi più difficile da affrontare.

Ovunque si ripeteva che era sbagliato per una donna avere ambizioni, in tal senso anche la religione rafforzava l’insegnamento proponendo come modelli da imitare ed esempi di virtù donne (prime tra tutte Maria) modeste, ubbidienti e silenziose votate al sacrificio. L’ambizione, la determinazione, l’entusiasmo nel promuovere il proprio lavoro erano considerati pregi da ammirare in un uomo, ma pericolosi segnali di arroganza, presunzione in una donna. L’applicazione alle arti non era sconsigliata, anzi, purché rimanesse nell’ambito del dilettantismo, purché non disturbasse le persone che la donna aveva attorno in famiglia, purché non la distogliesse dalla sua unica e vera vocazione: l’accudimento e la cura. 

Basterà forse ricordare che per Berthe Morisot, appartenente al gruppo Impressionista fin dalla prima esposizione, era davvero difficile fare quello che, con assoluta disinvoltura e facilità, facevano i colleghi maschi, ovvero la pittura en plein air che, non dimentichiamolo, costituiva uno dei tratti più caratteristici della ricerca formale del gruppo. Uscire da sole, gironzolare per la città durante il giorno per cercare e dipingere scorci interessanti della Parigi dell’epoca – e darsi quindi l’occasione per confrontarsi con la descrizione della luce e dell’eccitante frenesia della folla lungo i boulevard o nei tanti caffè e locali – era considerato, nella migliore delle ipotesi, altamente sconveniente.

Anche la partecipazione ai vivaci e stimolanti dibattiti sull’arte era per lei molto difficile: i ritrovi al caffè Guerbois – scelto dai colleghi come luogo informale di ritrovo, in dichiarata opposizione all’ufficialità degli spazi  dell’Accademia – non erano adatti a una signora, soprattutto se priva dell’accompagnamento del marito o di un familiare, quale garanzia di rispettabilità. Eppure l’artista non si è scoraggiata, la sua determinazione, insieme alla fortuna di aver sposato un uomo illuminato le permisero di superare qualche ostacolo: settimanalmente la sua casa si apriva a ricevimenti (come facevano le signore da bene della società del tempo), che però nel suo caso erano più riunioni di lavoro, in cui discutere d’arte, valutare strategie e sedi espositive ecc… 

https://www.hubscuola.it/hub_art/#/dettaglio/21685 

Il caso di Morisot non è certo caso isolato. Sofonisba Anguissola, Angelika Kaufmann, Rosalba Carriera, Rosa Bonheur, per citarne solo alcune, sono esempi che singolarmente ci raccontano la ragione di una così evidente assenza femminile nel mondo dell’arte: alle donne era richiesto, e ad alcuni livelli lo è ancora oggi, un carattere di eccezionalità, sconosciuto agli uomini; le donne dovevano essere eccezionalmente dotate, eccezionalmente determinate e anche fortunate nel trovare, almeno nella prima cerchia di familiari e amici, degli alleati su cui contare…il diritto alla mediocrità era solo degli uomini a cui bastava essere sufficientemente motivati per avere accesso, senza intoppi o fatiche, a un sistema di formazione e, conseguentemente, di un riconoscimento professionale. 

Negli anni, lo studio di specialisti e la ricerca d’archivio hanno permesso riscoperte importanti, basti pensare al lavoro fondamentale di Lea Vergine nel restituirci l’opera di artiste di assoluto interesse nell’ambito delle Avanguardie storiche, e al lavoro che ancora oggi musei e istituzioni conducono nell’approfondire lo studio e la promozione di artiste che per decenni sono state ignorate dal sistema dell’arte. Un caso recente è quello di Regina Cassolo Bracchi (1894-1974) scultrice attiva nelle fila del secondo Futurismo e poi, negli anni del Dopoguerra, nel MAC (Movimento Arte Concreta), che lo scorso anno ha avuto una personale alla Gamec di Bergamo in collaborazione con il Centro Pompidou che, contestualmente ospitava l’esposizione “Elle font l’abstraction”.

La ricerca di Regina Bracco veniva definita al tempo, non senza imbarazzo, un “certo cubismo domestico” nei circoli maschili dell’avanguardia italiana. Eppure sono molti i primati che oggi non esitiamo a riconoscerle, non solo in quanto prima scultrice d’Avanguardia, ma anche e soprattutto per le soluzioni formali, per l’individuazione di materiali non convenzionali, per le modalità espositive. Troviamo infatti un precoce utilizzo del plexiglas che l’artista fa giocare con la luce o la scelta di sospendere l’opera ed esplorare le sue variazione di movimento, come i ben più celebri mobile di Calder.

Tuttavia il pregiudizio nei confronti delle donne distorce la percezione del loro lavoro anche quando si tratta di contributi di notevole originalità e interesse come quello di Regina, e fa sì che vengano utilizzati aggettivi come “intimo, delicato, femminile, domestico” appunto per qualificarne le opere, ricacciandole così nell’ambito del dilettantismo. Si tratta di un pregiudizio così radicato e pervasivo da essere condizionante anche per donne che hanno una percezione lucida del proprio valore. Ne risultò condizionata Regina stessa, e la cosa non ci stupisce agendo lei in un’epoca ancora lontana da una diffusa coscienza di genere: non ebbe mai un suo studio, uno spazio da dedicare al proprio lavoro e alla propria ricerca, che interpretò e adattò, forse proprio per cercare di superare le limitazioni concrete che incontrava quotidianamente, inventando un tipo di scultura che riprendeva, nelle modalità esecutive, i procedimenti della sartoria (le sculture in fogli di alluminio venivano immaginate e pianificate con l’esecuzione di veri e propri cartamodelli tridimensionali tenuti insieme da spilli). 

Pensando quindi all’insegnamento dell’arte nelle scuole, quindi, potrà essere utile intervenire su due fronti: da un lato ricostruendo il contesto limitante con cui dovevano necessariamente confrontarsi le artiste, dall’altro mostrando il lavoro di artiste di indiscusso valore, magari soffermandosi a sottolineare gli elementi contestuali che hanno consentito loro una maggiore libertà di scelta e autodeterminazione e caratteriali grazie ai quali non sono state scoraggiate da un sistema culturale e sociale a questo indirizzato. 

Breve bibliografia di riferimento per approfondire

  • Nochlin L., Perché non ci sono state grandi artiste? (1977)
  • Vergine L., L’altra metà dell’avanguardia 1910-1940. Pittrici e scultrici nei movimenti delle avanguardie storiche, 1980
  • Trasforini M.A. (a cura di), Donne d’arte. Storie e generazioni, 2006
  • Trasforini M.A., Nel segno delle artiste. Donne, professioni d’arte e modernità, Bologna: Il Mulino, 2007
  • AA VV, Regina Cassolo Bracco, catalogo della mostra, Gamec 2021