La transizione ecologica e lo sviluppo sostenibile del suolo

Introduzione

Il suolo, lo strato più esterno della crosta terrestre, è un corpo naturale costituito da particelle minerali ed organiche che si originano dall’alterazione chimico-fisica delle rocce e dalla trasformazione biologica e biochimica dei residui organici. Il suolo, quindi, può essere inteso come lo strato superiore della crosta terrestre costituito da componenti minerali, humus, acqua, aria e organismi viventi. Il suolo ospita un quarto della biodiversità dell’intero Pianeta. Il suolo è un sistema ecologico evolutosi in risposta a stimoli e cambiamenti. È una risorsa preziosa, fragile, limitata e non rinnovabile, in quanto per originare un centimetro di suolo fertile sono necessari dai 100 ai 1000 anni.

 Il suolo costituisce la più grande riserva di carbonio organico esistente e, conseguentemente, svolge un ruolo centrale nel ciclo globale di carbonio e nella lotta ai cambiamenti climaticiTuttavia la distribuzione del carbonio a livello globale non è omogenea. Il carbonio nelle zone temperate e fredde del Pianeta come, ad esempio, l’Europa è immagazzinato in maggior quantità nel suolo piuttosto che nelle piante. Nelle zone tropicali, invece, avviene l’esatto opposto. In Europa, quindi, è fondamentale la tutela del carbonio organico presente nel suolo. Inoltre, i livelli di carbonio nel suolo variano tra gli Stati membri dell’Unione Europea ed in base all’utilizzo del terreno. 

I servizi ecosistemici forniti dal suolo sono la produzione alimentare e di biomasse; la purificazione delle acque; la regolazione del microclima, dei cicli biogeochimici, del deflusso superficiale e dell’infiltrazione dell’acqua; il controllo dell’erosione; la ricarica delle falde; la cattura e lo stoccaggio del carbonio e la conservazione della biodiversità. Il suolo rappresenta, quindi, un tassello fondamentale per raggiungere gli obiettivi del Green Deal europeo come, ad esempio, la neutralità climatica, il ripristino della biodiversità, l’inquinamento zero, i sistemi alimentari sani e sostenibili e un ambiente resiliente. È, quindi, parte integrante delle politiche, dei regolamenti e delle strategie dell’Unione Europea. 

Lo stato di salute dei suoli

Il degrado dei suoli è progredito notevolmente in tutto il mondo. Infatti studi recenti dimostrano che circa il 33% dei suoli mondiali sono moderatamente o fortemente degradati. Si stima una perdita annuale mondiale di 75 miliardi di tonnellate di suolo fertile determinata da fenomeni erosivi, dall’inquinamento, dalla frammentazione dell’habitat, dalle pratiche agronomiche non sostenibili, dal cambio di destinazione d’uso del suolo (ad es. deforestazione o conversione da pascolo a suolo coltivato) e dall’impermeabilizzazione dello stesso. 

L’impermeabilizzazione rappresenta la principale causa di degrado del suolo e, inoltre, contribuisce alla progressiva e sistematica distruzione del paesaggio, soprattutto rurale; alla perdita della biodiversità e della fertilità dei terreni agricoli e delle aree naturali e seminaturali; e, infine, ad incrementare il rischio di incendi. Dal punto di vista naturalistico, la scomparsa di superfici naturali e seminaturali penalizza la capacità di stoccaggio del carbonio, la qualità degli habitat e la biodiversità. Dal punto di vista culturale, determina un depauperamento del paesaggio e dei servizi ricreativi. Dal punto di vista economico, la riduzione delle superfici agricole impatta direttamente sulle produzioni alimentari.

Il Rapporto “Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici“, redatto dal Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente (SNPA) e dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), ha evidenziato come il consumo di suolo, in questi anni, non sia più connesso, principalmente, all’edilizia residenziale o produttiva ma ai settori della logistica, in maniera determinante dallo scorso anno, e della costruzione di impianti di energia rinnovabileIl raggiungimento degli obiettivi di capacità produttiva da fonti rinnovabili previsti nel Piano Nazionale Integrato Energia e Clima determinerà un trend in aumento al 2030 compreso tra i 200 e i 400 km2 di nuove installazioni di pannelli fotovoltaici a terra su suolo agricolo. 

In tale contesto, si evidenzia la sottovalutazione della funzione alimentare associata al settore primario e, conseguentemente, il coinvolgimento massiccio dell’agricoltura nella produzione di risorse energetiche attraverso la destinazione del terreno agrario ad usi diversi. Le installazioni di pannelli fotovoltaici a terra o innovativi (i.e. agrofotovoltaico) rappresenterebbero comunque anch’esse una forma di consumo di suolo in quanto la natura diffusa e la relativamente bassa densità superficiale dell’energia solare che alimenta i pannelli fotovoltaici determinerebbe l’occupazione da parte degli stessi impianti di aree estese di territorio agricolo.

Tra le pratiche agricole non sostenibili si annoverano quelle inerenti la conversione di superfici erbose, foreste e vegetazione naturale in terreni arabili; l’aratura profonda dei suoli; la lavorazione intensiva del suolo e l’utilizzo di fertilizzanti. Le pratiche agronomiche non virtuose, quindi, conducono alla degradazione e possono ampliare gli effetti dei cambiamenti climatici in quanto determinano la perdita di carbonio al suolo che ritorna in atmosfera sotto forma di anidride carbonica o metano.

Gli impatti dei cambiamenti climatici e le gestioni non sostenibili delle foreste hanno causato l’erosione del suolo e una riduzione di carbonio derivante dalla biomassa forestale e dalla matrice ambientale. La gestione intensiva del suolo e il suo cambiamento d’uso hanno ridotto la biodiversità del suolo come, ad esempio, la ricchezza delle specie di lombrichi, acari e microrganismi. Un suolo privo di lombrichi perde circa il 90% di efficacia nel trattenere l’acqua. 

Le sfide che dovrà affrontare il settore agricolo

La sfida del secolo che dovrà affrontare l’agricoltore sarà: garantire la produzione agroalimentare e ridurre l’impatto ambientale connesso. La sostenibilità dell’alimentazione, dal punto di vista ambientale, è connessa all’utilizzo efficiente delle risorse ed alla conservazione della biodiversità. Infatti i sistemi agricoli ed il cibo sono responsabili di 1/3 delle emissioni di anidride carbonica, con un peso crescente nei Paesi in via di sviluppo. 

Le sfide sopra menzionate potranno essere risolte promuovendo l’adozione di pratiche agricole conservative ed innovative (i.e. agricoltura di precisione). Con il termine agricoltura conservativa si intendono diverse tecniche agricole tendenti a conservare la fertilità del suolo coltivato. Secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO) sono tre i princìpi chiave che gli agricoltori possono adottare per approcciarsi all’agricoltura conservativa. Il primo principio chiave è quello di ridurre al minimo l’azione meccanica sul suolo, c.d. “no-tillage” o “sod seeding”. È una precauzione necessaria per conservare i livelli organici del terreno e la sua produttività, ridurre l’erosione e prevenire la dispersione di acqua. 

Il secondo principio dell’agricoltura conservativa si basa sulla gestione dello strato superficiale al fine di creare uno strato organico permanente che favorisca la componente biologia interna alla struttura del suolo. Tutto ciò favorirà la dispersione del pacciame residuo sulla superficie del terreno producendo un alto livello di materia organica che fungerà da fertilizzante. Sul lungo periodo, le pratiche di agricoltura conservativa consentono la formazione di un nuovo strato di compost che protegge efficacemente il suolo dall’erosione. Lo strato di compost comportandosi, come un filtro verso il terreno, riduce l’azione del vento e dell’acqua e contribuisce a mantenere costante la temperatura e i livelli di umidità del suolo.

L’ultimo principio riguarda la rotazione delle colture fra più di due specie. Tale pratica può essere utilizzata come metodo di controllo della buona salute del terreno. Questo procedimento, infatti, non consente ai parassiti e alle erbacce di finire in rotazione assieme a una coltura specifica. La rotazione delle colture agisce da insetticida e diserbante naturale. La rotazione può anche aiutare a costruire una solida infrastruttura del suolo con l’estensione di zone di radicamento che consentono una migliore infiltrazione dell’acqua.

Conclusioni

Per garantire la tutela del suolo in agricoltura occorre incentivare la diffusione delle pratiche conservative ed incrementare la capacità di sequestro di carbonio da parte dei suoli agricoli, delle praterie, delle torbiere e delle foreste. Occorre, inoltre, evitare compattamenti del suolo; gestire i residui culturali; impiantare o preservare le siepi, le macchie e le fasce tampone arbustive; promuovere la non lavorazione del suolo; attuare schemi di rotazione lunghi; gestire e recuperare i terreni marginali con l’introduzione di nuove colture; ridurre i fenomeni di erosione e degrado connessi a un cattivo utilizzo della risorsa suolo.

Infine è necessario incentivare il supporto, la formazione e la sensibilizzazione in ambito scolastico e professionale delle pratiche di gestione sostenibile del suolo. 

Link per approfondire

27 janvier : une journée européenne pour se souvenir

« Je ne suis vraiment jamais sortie du camp d’Auschwitz. »

C’est par ces mots très forts qu’Esther Senot, l’une des dernières rescapées des camps de concentration nazis, témoigne toute sa souffrance et sa détermination à rappeler au monde entier ce drame historique majeur et les enseignements qui s’en dégagent, pour que de telles tragédies ne se produisent plus. 

Née en 1928 dans une famille juive polonaise, elle s’installe à Paris à l’âge de deux ans. Elle vit à peu près normalement dans le quartier de Belleville jusqu’en 1939. Ensuite, tout change et devient compliqué pour les Juifs : recensement, couvre-feu à 20 heures, autorisation pour faire les courses… 

Si elle échappe miraculeusement à la rafle du Vél d’Hiv, elle connait, comme ses parents, l’enfer de Drancy. Le 2 septembre 1943, elle fait partie du convoi 59, un wagon à bestiaux avec un millier de femmes déportées dans les camps nazis d’Auschwitz-Birkenau. Un voyage de trois jours atroce, glaçant.

En 1945 elle y rencontre sa sœur Fanny, déportée deux ans plus tôt. « Les retrouvailles ont été pénibles, épouvantables. » Avant de mourir dans un crématoire, sa sœur lui fait promettre de raconter ce que des hommes ont été capables de faire à d’autres et « pour ne pas être les oubliées de l’histoire ».

Les récits des prisonniers juifs dans les camps de concentration sont terriblement les mêmes, mais, à chaque fois, c’est l’horreur. Horreur et souffrance qu’Esther voulait peut-être oublier, mais que les attentats terroristes de ces dernières années ont ravivées. 

Ainsi, soixante-seize ans après la libération des camps, fidèle à la promesse faite à sa sœur, Esther Senot continue de faire vivre la mémoire des siens par des conférences, des interviews et un livre très émouvant où le témoignage est suivi par un dialogue avec les disparus et par des lettres.

Le 27 janvier prochain, date symbolique qui correspond à l’anniversaire de la libération du camp d’Auschwitz-Birkenau, ce sera donc l’occasion d’engager avec nos élèves une réflexion sur la Shoah et les génocides et de rappeler les valeurs humanistes qui fondent la démocratie. 

Bibliographie 

  • Les films français :
    • Au revoir les enfants, L. Malle, 1987
    • La rafle, R. Bosch, 2010
    • Un sac de billes, C. Duguay, 2017

SketchUp per la progettazione 3D

3D modeling, 3D printing, Internet of Things, gaming, augmented reality e virtual reality, … non è solo un guazzabuglio di termini che ultimamente si sentono e leggono sempre più spesso. C’è un aspetto fondamentale che collega questi inglesismi: il legame con la tridimensionalità. Nel processo di sviluppo di un prodotto che sia riferibile in qualche modo a quell’elenco, infatti, è quasi inevitabile l’impiego di software di progettazione 3D.

Come questo possa entrare nella scuola secondaria di primo grado era, fino a pochi anni fa, abbastanza misterioso. Salvo rare eccezioni, il mondo della scuola restava quasi completamente impermeabile a questo tipo di innovazioni tecnologiche. Le cose sono cambiate rapidamente negli ultimi anni, probabilmente spinte dalla sempre crescente facilità di utilizzo e disponibilità delle tecnologie sopra citate e dal fiorire del loro mercato. Sono nati (o ri-nati) così diversi applicativi per la progettazione 3D, ciascuno con peculiarità diverse e che si focalizzano su diversi segmenti di questo settore in continua espansione.

SketchUp

Uno dei software di progettazione 3D più diffusi è certamente SketchUp, un applicativo che negli anni è stato sviluppato da diverse case software. Oggi è un software maturo, che facilita il lavoro di moltissimi professionisti. Viene utilizzato soprattutto nel campo dell’architettura e dell’ingegneria, ma anche in altri settori in cui è richiesta la progettazione 3D e di recente si sta affermando anche come buon riferimento in ambito didattico.

I vantaggi di SketchUp, infatti, lo rendono estremamente appetibile per l’uso in classe: è disponibile una versione gratuita “for Schools” con alcune funzionalità aggiuntive rispetto a quella gratuita di base; si utilizza online, mediante un semplice browser, dando così la possibilità salvare i propri lavori nel cloud e riprenderli in ogni momento anche da postazioni diverse, quindi dando la possibilità di lavorare anche da casa senza dover installare software specifico; soprattutto, riesce a coniugare la semplicità di utilizzo con la precisione e le funzionalità tipiche di un CAD vero e proprio.

Progettazione e stampa 3D a scuola

Facciamo un passo indietro: perché progettazione e stampa 3D dovrebbero mai entrare a scuola? La documentazione di riferimento per la didattica della tecnologia nella scuola italiana, a cominciare dalle Indicazioni Nazionali per il curricolo, è ricca di punti che possono essere sviluppati con attività di progettazione e stampa 3D. Negli obiettivi di apprendimento – ad esempio – sono citati l’impiego di strumenti e regole del disegno tecnico per la rappresentazione di oggetti, l’ideazione di loro modifiche, l’impiego di materiali facilmente reperibili, la considerazione di esigenze e bisogni concreti, la pianificazione delle diverse fasi di realizzazione e l’esecuzione di prove sperimentali. Si tratta di obiettivi estremamente importanti per la didattica della disciplina. Non è difficile immaginare come il lavoro di progettazione e stampa 3D possa essere propedeutico al loro conseguimento.

Come se non bastasse, un lavoro di questo tipo può facilmente mirare allo sviluppo della spesso trascurata competenza imprenditoriale, una delle otto competenze chiave per l’apprendimento permanente indicate nella Raccomandazione del Consiglio europeo del 2018.

L’ambiente didattico privilegiato in cui sviluppare lavori di progettazione e stampa 3D non può che essere il laboratorio. Le stesse Indicazioni Nazionali lo individuano come “riferimento costante per la didattica della tecnologia” in quanto “modalità per accostarsi in modo attivo e operativo a situazioni o fenomeni oggetto di studio”.

In questo contesto ha senso riferirsi alla pedagogia costruzionista di S. Papert, per il quale l’apprendimento avviene tramite una (ri)costruzione del sapere da parte del discente, prestando attenzione alla significatività di quanto costruito.

Una vista di un oggetto 3D in fase di elaborazione con SketchUp.

Un esempio possibile

Le attività di progettazione 3D possono costituire buone occasioni per lavorare in direzione trasversale alle discipline.

Un’idea a cui ho accennato nel webinar “Domare le curve con SketchUp”, in cui sono presentati i contenuti di questo articolo, è quella di realizzare uno spirografo.

L’oggetto è tanto semplice quanto ricco di spunti matematici, poiché nella realizzazione si stimolano gli studenti a ragionare (in maniera più o meno diretta) sui concetti di multiplo e di divisibilità, di massimo comun divisore, ma anche sulle frazioni e le caratteristiche dei numeri razionali. Alcune domande che è utile porsi possono essere: come varia il disegno che otteniamo al variare della posizione del foro sulla parte rotante? Che relazione c’è tra il rapporto tra il numero di denti della sede e quello della parte rotante? Come influiscono le forme di sede e parte rotante sul disegno finale?

Anche il problema dello sviluppo delle ruote dentate pone problemi rilevanti: bisogna infatti occuparsi del corretto dimensionamento dei denti, oltre che di elaborare – per le diverse parti, sia i denti che le sagome della sede e della parte rotante – forme che siano funzionali e funzionanti.

Per approfondire

Live streaming:

Sorgenti di SketchUp per primo tentativo di spirografo:

Siti utili:

Scopri l’opera

Presente e futuro, corso di tecnologia per la scuola secondaria di primo grado, di A. Tubia e S. Pasquale – Fabbri Editore – Rizzoli Education 2021

24 de enero, Día Internacional de la Educación: por una educación justa, inclusiva y comprometida (Objetivo de Desarrollo Sostenible 4)

Todos los años nuevos empiezan con un sinfín de deseos y de buenos propósitos, de estos muchos se quedarán en agua de borrajas. Nuestro primer deseo para este año es que se avance un poquito más en el camino para alcanzar una educación justa, inclusiva y comprometida para que todos los niños y las niñas tengan un futuro mejor y con igualdad de oportunidades.

Tal y como se detalla en el reciente informe global de la UNESCO (Los futuros de la educación), transformar el futuro requiere reequilibrar de manera urgente la forma en la que nos relacionamos entre nosotros, con la naturaleza y con la tecnología para solucionar los problemas de equidad, inclusión y participación democrática. 

Además, también se debe meditar sobre cómo fortalecer la educación como bien público y común, cómo dirigir la transformación digital, apoyar a los docentes y liberar el potencial de cada persona para contribuir al bienestar colectivo.

Para lograr este último objetivo, liberar (y potenciar) el potencial de nuestros alumnos, podemos intentar imaginar nuestro futuro, no solo el suyo, con ellos, reflexionar sobre cuál es su talento oculto. 

Sin una educación de calidad, inclusiva y equitativa para todos y de oportunidades de aprendizaje a lo largo de toda la vida, los países no lograrán alcanzar la igualdad de género ni romper el ciclo de pobreza que deja rezagados a millones de niños, jóvenes y adultos.

Per approfondire

 

La transizione ecologica per una smart community

Gennaio 2022

La transizione ecologica implica la totale trasformazione dall’attuale sistema consumistico alimentato dalle fonti fossili a un modello di economia sostenibile basato sull’impiego delle energie rinnovabili. Un processo epocale, di cui iniziamo solo ora a cogliere i primi segni, in un panorama reso ancora più confuso dalle conseguenze della pandemia di Covid-19. In questo articolo, Olimpia Capobianco e Simona Diani ci guidano alla comprensione di questo processo complesso, destinato a trasformare gli agglomerati urbani e le aggregazioni sociali in nuovi modelli di comunità: le smart community.

L’articolo arricchisce il corso Società futura. Tutte le informazioni sul corso sono disponibili nel nostro catalogo online.

Le frontiere della computazione I | I limiti delle macchine di Turing

Cara lettrice, caro lettore,
i computer che utilizziamo quotidianamente sono basati su dei modelli classici, per esempio le macchine di Turing delle quali abbiamo parlato in questo articolo di Rivista. Le macchine di Turing sono semplici a sufficienza da poter essere realizzate nei moderni computer. Inoltre offrono una potenza di calcolo notevole, che ci permette di realizzare modelli di fenomeni complessi come il meteo, l’andamento dei mercati o la gestione dei razzi spaziali. Le macchine di Turing, però, hanno dei limiti che non possono essere superati nemmeno con le più avanzate innovazioni tecnologiche. Per esempio, alcuni problemi non si possono risolvere con le macchine di Turing. Altri, invece, si possono risolvere ma con algoritmi molto lenti, che oggi non sappiamo ancora se si possano ottimizzare. Pensiamo a due esempi: l’addizione di due numeri naturali e la risoluzione di un Sudoku.

Problemi facili…

Per il primo problema conosciamo una procedura risolutiva semplice: la somma in colonna. Se sommiamo due numeri di una cifra compiamo un’operazione. Se sommiamo due numeri da dieci cifre ciascuno, compiamo al massimo venti operazioni (tenendo conto dei riporti). Se i due numeri avessero diecimila cifre, compiremmo al massimo ventimila operazioni. Per descrivere questa situazione possiamo utilizzare una funzione che, sulla base della lunghezza dei due numeri in input, ci dice il numero massimo di operazioni che dobbiamo compiere per eseguire la somma. In questo caso, $f(n) \approx 2n$. I problemi la cui risoluzione richiede un algoritmo che compie un numero di operazioni polinomiale nella lunghezza dell’input $n$ sono considerati semplici e i loro tempi di risoluzione sono brevi.

…e problemi difficili

Ora passiamo al secondo problema, quello del Sudoku. Il Sudoku è un gioco in cui è presente una griglia di 9×9 celle ognuna delle quali può contenere le cifre da 1 a 9. La griglia è suddivisa in 9 righe, 9 colonne e 9 quadrati 3×3 [si può mettere qui vicino la figura allegata? è uno screenshot del libro. Se serve il pdf chiedetemelo]. In alcune celle è inserita una cifra, altre sono vuote. Lo scopo del gioco consiste nel completare la griglia inserendo i numeri mancanti, rispettando il vincolo che in ogni riga, ogni colonna e ogni quadrato 3×3 siano presenti tutte le cifre da 1 a 9, senza ripetizioni.

L’algoritmo più efficiente per risolvere questo problema consiste nell’aggiungere una cifra alla volta e verificare che i vincoli siano rispettati. Se la cifra inserita rispetta i vincoli possiamo procedere con un nuovo tentativo. Se, invece, qualche vincolo non è rispettato, torniamo indietro e riproviamo con un’altra cifra. Questo procedimento continua finché il Sudoku non è risolto.

All’apparenza questo algoritmo non sembra difficile, ma vediamo quanti modi possibili ci sono per completare un Sudoku. Ogni casella può contenere una cifra da 1 a 9, inoltre il Sudoku ha 9×9 = 81 caselle. Di conseguenza, ci sono $9^{81}$ possibili combinazioni. Da questo numero dovremo togliere tutte le combinazioni non valide, cioè quelle che ripetono le stesse cifre negli stessi quadrati 3×3, righe o colonne. Il numero di possibili soluzioni è quindi 6 670 903 752 021 072 936 960. Al crescere del numero $n$ di celle di un lato della griglia, il numero di tentativi da effettuare cresce un po’ più lentamente di $n^{2n}$. Questa funzione cresce molto più velocemente di qualsiasi polinomio, quindi il problema del Sudoku è considerato difficile e il suo tempo di risoluzione è molto lungo. Inoltre, oggi non sappiamo ancora se ci sia un algoritmo risolutivo più veloce di questo, cioè se sia possibile ottimizzare il problema del Sudoku.

I problemi difficili nel mondo reale

Il Sudoku è un passatempo più o meno divertente, ma con poche applicazioni alla vita di tutti i giorni. Però ci sono alcuni problemi difficili la cui risoluzione in tempi rapidi rivoluzionerebbe, in meglio o in peggio, la nostra quotidianità. Un esempio è il problema del folding delle proteine, cioè di determinare a partire da una catena di amminoacidi la struttura tridimensionale della proteina che essi codificano. Un’applicazione concreta di questo problema è la ricerca di una cura per alcune malattie, tra cui il cancro.

Altri esempi di problemi oggi considerati difficili riguardano la sicurezza informatica. Per esempio, indovinare una password di $n$ lettere richiede $25^n$ tentativi, mentre indovinare una password composta da lettere e cifre ne richiede $35^n$. Anche la decifrazione dei sistemi di crittografia moderni di cui abbiamo parlato nell’articolo è un problema difficile. E questo è un bene, infatti è proprio sulla difficoltà nel risolvere questi problemi che si basano gli odierni protocolli di sicurezza informatica.

Le frontiere della computazione

Trovare dei metodi alternativi alle macchine di Turing che permettano di risolvere dei problemi oggi considerati difficili, quindi, avrebbe tantissime ricadute pratiche. Nei prossimi tre articoli vedremo altrettante tecniche che promettono di velocizzare drasticamente la risoluzione di alcuni di questi problemi difficili.

Per approfondire

L’inseminazione artificiale nella specie bovina

Nell’allevamento di vacche da latte, la gestione della riproduzione risulta di fondamentale importanza al fine di massimizzare la redditività aziendale. È ormai noto che “non c’è produzione senza riproduzione”. Il mancato o errato intervento di fecondazione artificiale dovuto ad un’errata rilevazione degli estri ed uno scorretto utilizzo degli strumenti, può comportare notevoli perdite economiche (Heershe et al., 1994).  Le tecniche, le metodologie e gli strumenti utilizzati nella pratica dell’inseminazione artificiale (F.A.), non hanno avuto grandi evoluzioni nel tempo.

Nell’ultimo decennio è stata sicuramente migliorata l’efficienza nella produzione delle dosi di materiale seminale con il conseguente aumento della fertilità. Infine, è aumentata l’accuratezza nella produzione delle dosi di materiale seminale sessato con l’aumento dei vantaggi economici nella gestione della rimonta aziendale che richiede la nascita di femmine (Mattiaccio M., 2020). Al giorno d’oggi la stragrande maggioranza degli allevatori effettua in autonomia gli interventi di inseminazione artificiale nella propria mandria, attività un tempo gestita quasi esclusivamente dal veterinario aziendale. L’abilitazione alla F.A. si consegue a seguito di uno specifico corso con successivo rilascio di un diploma che abilita l’operatore come “Fecondatore laico”.

Quali sono, ad oggi, gli strumenti necessari per effettuare l’intervento di F.A.? Nelle aziende è presente un contenitore criogenico dove vengono conservate le singole dosi di materiale seminale bovino (chiamate “paillettes”) in bagno di Azoto liquido a -196 °C. La strumentazione necessaria invece è composta da:

  • pistolette: una siringa tubolare metallica della lunghezza di 45 cm ed il diametro di 4-5 mm provvista di uno stantuffo dove vengono inserite le paillettes preparate per la F.A.;
  • guaina da F.A.: un tubicino in plastica della stessa lunghezza di circa 40 cm che ha funzione di protezione sanitaria della pistolette;
  • camicia sanitaria proteggi siringa: un involucro in materiale plastico che avvolge la pistolette e la guaina da F.A. che svolge funzione sanitaria e ha lo scopo di evitare che, durante la F.A., venga contaminato il corpo dell’utero da microrganismi;
  • il guanto da ispezione veterinaria: è un guanto in polietilene della lunghezza di circa 90cm che ha la funzione di proteggere il braccio dell’operatore durante l’ispezione rettale nelle manovre di F.A.;
  • lo scongelatore per paillettes: un contenitore termostatato ad una temperatura costante compresa tra i 36,5 °C ed i 37,5 °C con lo scopo di scongelare correttamente le dosi di materiale seminale per rivitalizzare il materiale seminale.

Tutta la strumentazione deve sempre essere pulita accuratamente dopo ogni intervento di F.A. e riposta in un luogo igienicamente adeguato. La pulizia ed il corretto utilizzo della strumentazione, la corretta gestione di tutte le fasi di preparazione del seme e di F.A., permettono di aumentare l’efficienza riproduttiva migliorando gli indicatori di fertilità della mandria (Spelta R., 2015).

L’influenza africana sull’arte europea: questione di sguardi

Questo articolo affronta alcuni aspetti problematici dei rapporti euro-africani in ambito artistico in epoca moderna e contemporanea. Nella letteratura e nella prassi museologica si è consolidata, nel tempo, una visione talvolta semplicistica e parziale di tali rapporti, che si è limitata a rilevare l’assimilazione, da parte delle avanguardie storiche europee di inizio Novecento, di forme e modelli provenienti dall’arte e dall’artigianato coloniale, ovvero da quei paesi extraeuropei (in particolar modo Africa, Oceania, America Centrale), considerati all’epoca primitivi, esotici e, di fatto, asserviti alle potenze imperiali occidentali.

Per affrontare il rapporto intercorso tra Africa ed Europa in termini storico-artistici tra XIX e XX secolo, è necessario munirsi di un buon grado di consapevolezza in quello che può essere considerato il processo primario di ogni assimilazione e comunicazione visiva: lo sguardo. Guardare, esporre allo sguardo, creare e agire per lo sguardo, sono azioni mai prive di significato politico, culturale, antropologico, come riesce a dimostrare John Berger nel suo celebre ciclo di video-lezioni concepite per BBC Two nel 1972 e confluite poi nel volume Ways of Seeing

La grande influenza dell’arte africana sull’arte moderna europea è stata il prodotto di un rapporto di sguardi essenzialmente europei, che possiamo definire interni ed esterni, ossia lo sguardo dell’individuo occidentale su sé stesso e il suo sguardo verso quel che in definitiva considerava altro da sé: l’individuo africano o comunque extra-occidentale (euroamericano). Quel che si è perso, in questa narrazione dell’arte occidentale diventata ben presto canone, è lo sguardo extra-europeo sull’occidente.   

Nel film di Quentin Tarantino Django Unchained (2012), Leonardo Di Caprio interpreta lo spietato possidente terriero e schiavista americano Calvin Candy. In una scena carica di tensione, Candy espone allo sguardo dei suoi ospiti il teschio, perfettamente conservato, dello schiavo africano che aveva servito la sua famiglia per più di una generazione: Old Ben. Egli arriva a eseguire una craniotomia live per dimostrare le cause della sottomissione della “razza negra” a quella occidentale; la frenologia costituirebbe dunque una scienza esatta, in grado di giustificare e spiegare sotto un profilo assolutamente biologico ed evolutivo l’inferiorità degli Africani rispetto alla “razza bianca”. Se nel film di Tarantino le vicende dello schiavo liberato Django risultano inverosimili nella loro tragicomicità, il contesto in cui si svolgono è assolutamente veritiero e storicamente coerente a un pensiero culturale e politico ampiamente diffuso in America e in Europa intorno alla metà dell’Ottocento. La storia dell’arte occidentale, così come la conosciamo nella manualistica scolastica e universitaria, può fornire un utile supporto nella comprensione di quello sguardo interno (proiettato su noi stessi, individui e comunità occidentali) che all’epoca di cui trattiamo porta a discriminare addirittura scientificamente “loro”, gli “altri” (popoli africani e di altre provenienze non occidentali).

Si può iniziare questa rapida ricognizione dal dipinto di Joseph Wright of Derby, Esperimento su di un uccello inserito in una pompa pneumatica (1768), in cui vediamo simbolicamente accendersi la luce della scienza e della conoscenza all’interno della comunità inglese illuminista. La scena, per gli sguardi di stupore, meraviglia e triste preveggenza che circondano l’apparizione luminosa dell’oggetto di culto al centro del quadro, potrebbe di primo acchito ricordare quella di una natività, se non fosse che al posto del Gesù bambino, futuro dio fatto uomo e immolato sulla croce, troviamo la pompa pneumatica. L’esperimento scientifico assume funzione di rito e l’uccellino destinato a morire soffocato è la vittima da sacrificare nel nome del bene collettivo. L’idea che ci identifica come comunità occidentale illuminata inizia proprio da questo modo di guardarci, di ritrarci e raffigurarci. Allo stesso tempo il modello di eroe contemporaneo, vincente e dominante, è quello del Napoleone attraversa le Alpi al Gran San Bernardo di Jacques Louis David (1800), oppure de La libertà che guida il popolo di Eugène Delacroix (1830), dove l’eroe non è più tanto un modello individuale cui guardare per trovare ispirazione, quanto piuttosto ogni singola parte di un’unità simbolica: l’identità nazionale, sociale e politica, che trova nel movimento rivoluzionario collettivo un senso comune di appartenenza. Altre opere ci informano di uno sguardo auto-riflessivo come società progredita, sia in senso tecnologico-scientifico (si pensi al romantico ma anche proto-impressionista o addirittura proto-futurista dipinto di William Turner Pioggia, vapore e velocità, 1844), sia in quello di un costume sociale sempre più inurbato, emancipato e auto-determinista, espresso bene ne La lettrice di Federico Faruffini (1864-65) o nelle diverse eppur coerenti scene di vita parigine dipinte da Claude Monet (Il carnevale al Boulevard des Capucines, 1873) e Gustave Caillebotte (Strada di Parigi: tempo di pioggia, 1877) ma anche da Henri de Toulouse-Lautrec (Al Moulin Rouge, 1892-1893). 

Muovendoci rapidamente lungo un secolo, tra Inghilterra, Francia e Italia, siamo così arrivati al decennio che chiude il secolo XIX, un’epoca segnata dal pensiero illuminista e positivista il cui simbolo visivo potrebbe senz’altro essere la Tour Eiffel. Inaugurata nel 1889, in occasione dell’Esposizione Universale di Parigi, come è noto questa costruzione cela nel terzo piano un “locale segreto”: un confortevole appartamento, voluto dal suo stesso progettista, Gustave Eiffel, accessibile soltanto a lui e ai suoi ospiti. Fra questi, come oggi documenta il diorama ricostruito all’interno, vi fu anche il geniale inventore americano Thomas Edison. I due effettivamente si incontrarono lì durante i giorni dell’Expo parigina e, dall’alto di quell’opera monumentale, che manifestava e ricordava il successo e il dominio del pensiero razionale occidentale, è possibile abbiano concordato sul fatto che quell’epoca poteva ben essere definita all’avanguardia anche e soprattutto grazie all’ingegno di persone come loro: quell’incontro conchiudeva simbolicamente l’affermazione su scala globale di un modello culturale dominante, quello euro-americano.

Tale modello fondava le sue basi anche sul colonialismo, giustificato perfino “scientificamente” da teorie – e purtroppo anche da pratiche – che stabilivano non tanto una gerarchia di merito e supremazia tra i popoli, quanto una scala di differenziazione specifica tra le “razze umane”, lungo la quale ovviamente gli individui africani si collocavano sul gradino più basso mentre i colti borghesi europei su quello più alto. Tale presunzione para-scientifica veniva divulgata in quelle stesse Esposizioni Universali che presentavano le più aggiornate conquiste tecniche nei più svariati campi di applicazione economica, artistica e sociale. Tra i divertissements venduti durante l’Expo parigina vi erano anche le Vues Stéréoscopiques, un sistema di riproduzione delle immagini che permetteva di osservare delle fotografie all’interno di un visore bioculare che restituiva l’effetto ottico della tridimensionalità (l’antenato del nostro Oculus). Tra le vedute stereoscopiche prodotte dalle edizioni Paris-Stéréo nel 1889, la serie n. 16 permetteva di osservare il Village Nègre. Si trattava della documentazione fotografica delle oltre quattrocento persone deportate a Parigi da diverse colonie francesi in Africa, per essere esposte al pubblico nelle loro “abitudini quotidiane” durante l’Expo. Questa triste pratica inaugurava i cosiddetti “zoo umani” diffusi nelle varie esposizioni universali inaugurate a decine nell’emisfero occidentale dell’epoca. Nell’intenzione dei governi che agevolavano tali prassi, la presenza dei “villaggi negri” in questo tipo di rassegne stava a marcare in modo tangibile e fisico l’incolmabile distanza, la differenza tra la società civilizzata del modello europeo e i “selvaggi”, quei popoli sottosviluppati provenienti dalle colonie. Più sottilmente si trattava di una forma retorica di propaganda estrema che tendeva a rafforzare nelle società occidentali la convinzione nel e il sostegno al modello di sviluppo occidentale fondato sullo sfruttamento delle colonie e dell’altro.

Si può, anzi si deve precisare che benché tale visione fosse di fatto dominante all’epoca, non era in ogni caso totalizzante e univoca nella società occidentale, esistendo un pensiero alternativo. Tuttavia, è bene ricordare come il razzismo scientifico si fosse insediato anche nelle menti più lucide e prestigiose del pensiero filosofico moderno, basti pensare ad alcuni brani contenuti nelle lezioni sulla filosofia della storia di Hegel, dove si afferma che lo stato di barbarie a cui si trova l’Africano non consente all’Europeo di immedesimarsi e quindi comprendere pienamente la sua natura, così come non è possibile farlo nei confronti di un cane. Se ne deduce, secondo Hegel, che il rapporto di schiavitù è l’unico in grado di stabilire un canale di comunicazione tra “loro” e “noi”, anzi per Hegel la schiavitù rappresenta un’opportunità per gli Africani di evolversi a stretto contatto con gli esseri civilizzati superiori. Hegel, certamente, precisa che la schiavitù rappresenti un’ingiustizia contraria all’essenza libera dell’essere umano, tuttavia non può esimersi dal riconoscere che per conquistarsi la libertà l’uomo deve prima acquisire la necessaria “maturità”. Nel pensiero occidentale ottocentesco la cultura dell’altro da sé viene dunque semplificata in un infantilismo barbarico, suscettibile di essere manipolato, dominato, “educato” a discrezione del popolo illuminato dominante. Nascono in questo secolo termini e miti come quello del “buon selvaggio” (che affonda le sue radici nello “stato di natura” ipotizzato da Jean-Jacuques Rousseau nel suo Discours sur les sciences et les arts, 1750), dell’“arte negra” ma soprattutto del “primitivismo”. Quest’ultimo termine fa la sua comparsa nel Nouveau Larousse Illustré del 1897, mentre nel 1915 Carl Einstein pubblica il suo celebre saggio sulla scultura africana dal titolo Negerplastik

Il confronto con le “culture altre” prende così vita nei centri urbani europei, non soltanto tramite le Esposizioni Universali ma anche attraverso i primi musei tematici. Parigi rappresenta ancora, in questo senso, l’epicentro di una tendenza che vede sorgere in tutta Europa i musei coloniali ed etnografici, con l’istituzione del Musée Permanent des Colonies (1855) e più tardi nel più noto Musée d’Ethnographie du Trocadéro (1878-1935). Il Trocadéro (come veniva comunemente chiamato a Parigi) si trovava a poche centinaia di metri dalla Tour Eiffel ed era meta frequente delle esplorazioni urbane di alcuni artisti dell’avanguardia parigina internazionale, come ad esempio Matisse, Picasso, Braque, Brancusi e Modigliani, solo per citarne alcuni tra i più noti. All’intero del museo erano esposti, secondo uno schema accumulatorio tipico della museografia dell’epoca, gli oggetti più disparati provenienti dai paesi extraeuropei: amuleti rituali accanto ad armi, utensili agricoli, capi d’abbigliamento e oggetti d’uso quotidiano, tutto senza alcuna contestualizzazione. Il museo come contenitore dei trofei o dei frutti simbolici della colonizzazione permane ben oltre il XIX secolo, basti pensare che nel 1931, con l’Exposition Coloniale Internationale, a Parigi si inaugura il Palais de la Porte Dorée, di fatto un museo delle colonie il cui edificio, esistente ancora oggi, ospita dal 2007 il rinnovato Museo Nazionale di Storia dell’Immigrazione.

La presenza degli artisti in questa tipologia di musei è sicuramente un primo elemento di rottura in un sistema culturale costruito sulla dimostrazione quotidiana della superiorità europea nei confronti delle culture altre. Gli artisti sono uomini del loro tempo, perciò pur spiegandosi anch’essi con termini come “arte negra” o “arte primitiva”, di fatto aprono, con le loro ricerche, a una contaminazione del linguaggio espressivo occidentale che senza dubbio è stata ed è ancora oggi uno dei fenomeni che ha avuto conseguenze e implicazioni più profonde e durature sullo sviluppo delle arti visive globali. Nel discorso storico-artistico, del resto, con il termine primitivismo non si identificano solamente e non tanto le arti plastiche di Africa, Oceania, Asia e Centroamerica, quanto varie declinazioni del confronto innescato dagli artisti occidentali con le civiltà lontane dagli epicentri dell’arte europea (lontane geograficamente o culturalmente). Per questo, nell’ultimo decennio del XIX secolo, la contaminazione del canone, e in un certo senso il suo rinnovamento in senso primitivista si può riscontrare nei paesaggi esotici e naif di Herni Rousseau, come nei quadri eseguiti a Thaiti da Gauguin, o ancora nelle scene bretoni dipinte dallo stesso Gauguin e da Van Gogh. In Italia la ricerca sui primitivi si orienta verso l’arte espressa dai pre-rinascimentali, come Giotto e Masaccio, portando a risultati come Le figlie di Loth di Carlo Carrà (1919), oppure indaga la plastica delle statue funerarie etrusche, come nel caso delle grandi terrecotte eseguite da Arturo Martini degli anni trenta.

Nei primi anni del XX secolo Henri Matisse fu l’artista che maggiormente colse e seppe far propri gli stimoli provenienti dalla visione e dallo studio delle opere d’arte africana, non soltanto grazie ai musei e alle esposizioni parigine ma anche attraverso un’esperienza diretta presso i popoli dell’Africa settentrionale, dove l’artista si reca più volte fino al 1907, anno del suo viaggio in Italia. Le geometrie di sculture e tessuti africani forniscono a Matisse nuovi spunti di carattere formale e strutturale, che egli riporta nella composizione dei propri dipinti di quegli anni, in una fusione di riferimenti alla tradizione pittorica rinascimentale e alle arti africane. Tale sapiente integrazione e rielaborazione di modelli per certi versi antitetici è percepibile anche in opere fondamentali del suo percorso, ben note al grande pubblico, come La joie de vivre (1905-06) o La danse (1910). Anche in opere più tarde come Portrait de M.me Matisse (1913) e Sculpture et vase de lierre (1916-17) la citazione quasi letterale della scultura africana (rispettivamente nel volto della moglie e nella statua) sottende a un ripensamento globale delle geometrie interne al dipinto. 

Come è noto, negli stessi anni dei viaggi africani di Matisse, e in particolare nel 1907, Pablo Picasso completa l’opera che nella letteratura segna l’avvio del cubismo: Les demoiselles d’Avignon (1907), dipinto rimasto visibile per lungo tempo soltanto nello studio dell’artista, che ritrae la celebre scena di nudo di un gruppo di prostitute. L’opera si completa formalmente con la metamorfosi di tre dei cinque volti di donna in maschere africane. Al contrario di Matisse, che nell’arte extraeuropea trova soluzioni inedite ai rapporti geometrici interni a pittura e scultura, Picasso è attratto dalla potenza emozionale, persino spirituale che la sintesi dell’arte africana era in grado di comunicare. Certamente non si trattava soltanto di questo: anche dal punto di vista formale e compositivo i dipinti di Picasso del periodo analitico (seconda metà del primo decennio del secolo) dimostrano rapporti volumetrici e geometrici di chiara derivazione africana. Gli studi di Picasso, di Matisse e di George Braque erano luoghi in cui oggetti artistici o rituali provenienti dall’Africa si potevano ammirare esposti alle pareti.

Nei primi anni dieci del Novecento – mentre l’influenza africana si perpetuava anche in alcuni assemblaggi della versione sintetica della ricerca cubista di Picasso – sempre a Parigi la sintesi formale ispirata alle maschere dei popoli Fang e Makongo si diffonde e si ritrova ben presente nelle sculture di Constantin Brancusi (Mademoiselle Pogany, 1912, La Maiastra, 1912) e Amedeo Modigliani (Testa, 1911-13). La ricezione dei modelli artistici provenienti dal continente a sud del Mediterraneo è evidente anche in altri movimenti d’avanguardia europei, coevi ai Fauves e ai Cubisti, basti pensare ai dipinti ma soprattutto alle xilografie del gruppo espressionista Die Brücke, fondato a Dresda nel 1905, pur in una più asciutta e nervosa configurazione grafica (Erich Heckel, Fränzi distesa, 1910; Karl Schmidt-Rottluff, Devozione, 1912). Con il procedere dei decenni sarà poi soprattutto il Surrealismo ad assimilare opere ed oggetti prodotti da popoli extraeuropei (soprattutto oceanici) in chiave straniante e irrazionale. 

Per concludere questa breve analisi, è opportuno fare un passo più vicino a noi e considerare un ulteriore sguardo focalizzatosi sulle vicende che abbiamo appena trattato: nel corso del Novecento, infatti, il fenomeno dell’influenza dell’arte africana sulle avanguardie europee è a sua volta diventato oggetto di sguardi e di esposizioni, non sempre centrati sul punto fondamentale della questione. Dal 27 settembre 1984 al 15 gennaio 1985 il Museum of Modern Art di New York ospitò la mostra Primitivism” in 20th Century Art: Affinity of the Tribal and the Modern, a cura di William Rubin e Kirk Varnedoe. Ancora una volta lo sguardo privilegiato è stato quello eurocentrico, che mette in luce le opere d’arte africana soltanto nella misura in cui possono essere ricondotte a quelle ben più note e celebrate degli artisti modernisti occidentali. Sul numero di novembre 1984 di Artforum, Thomas McEvilly stigmatizzò l’allestimento e il taglio critico dell’esposizione, sottolineando l’assenza di dati e spiegazioni sul contesto di provenienza delle opere africane esposte, denunciando la repressione del contesto, dei significati, dei contenuti e concludendo che la mostra non aveva fatto altro se non dimostrare il perpetrarsi dei meccanismi di appropriazione culturale del colonialismo da parte dell’egoismo occidentale.

Di approccio completamente differente si è rivelata la mostra Africa Reborn. African aesthetics in contemporary art, curata da Philippe Dagen per il Musée du Quai Branly Jacques Chirac di Parigi (9 febbraio-11 luglio 2021). Lo sguardo si sposta qui sulle interrelazioni artistiche fra Africa e mondo un secolo più tardi rispetto ai fatti avvenuti tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. La mostra mette infatti in evidenza come le estetiche, i linguaggi e le tradizioni africane abbiano continuato a influire e a fornire nuovi spunti negli artisti d’avanguardia di tutto il mondo, a partire dalla fine del secolo scorso. Significativamente il punto di partenza della mostra del Quai Branly è proprio il ricordo e la documentazione della fallimentare esposizione del MoMA Primitivism del 1984.

Oggi che nel micro-universo globalizzato dell’arte contemporanea ogni discriminazione di latitudine e longitudine sembra svanita, in favore di una sempre maggiore consapevolezza interculturale dei fenomeni artistici, è ormai consolidata l’abitudine non tanto a considerare l’arte africana nella sua specificità, ma a considerarla per molti aspetti come l’arte più interessante o – per restituirle un termine modernista – più d’avanguardia nella scena attuale. Anche queste sono semplificazioni, basti pensare all’abusata (ma vera) citazione che non esiste un’Africa ma tante Afriche (e come potrebbe essere altrimenti per un continente tanto vasto quanto complesso, vario e stratificato?). Da molti anni gli artisti provenienti da queste Afriche sono apprezzati e premiati nei contesti espositivi internazionali, basta citare i ghanesi John Akomfrah e El Anatsui, l’americana-etiope Julie Mehretu o i sudafricani William Kentridge e Marlene Dumas, mentre i più giovani emergenti, come Ibrahim Mahama o Godwin Champs Namuyimba, sono oggi all’attenzione della critica e del mercato.

Si può concludere questa breve analisi con quanto riportato sul sito della Phaidon, editore a fine 2021 della vasta ricognizione African Artists: From 1882 to Now: “l’arte moderna e contemporanea africana è in primo piano nell’attuale movimento curatoriale e collezionistico della scena artistica odierna”. Ci troviamo forse in prossimità di un giro di boa nell’incrocio di sguardi?

Bibliografia essenziale

  • John Berger, Questione di sguardi, il Saggiatore, Milano 2021.
  • Marine Degli, Marie Mauzé, Arts premiers. Le temps de la reconnaissance, Gallimard, Parigi 2006.
  • Manlio Dinucci, Geostoria dell’Africa, Zanichelli, Bologna 2000.
  • Joseph L. Underwood, Chika Okeke-Agulu, Phaidon Editors, African Artists: From 1882 to Now, Phaidon Press, New York-London 2021.

Scopri l’opera

  • Con gli occhi dell’arte” di Valerio Terraroli – Sansoni per la scuola – Rizzoli Education, 2022 – Testo di storia dell’arte per la scuola secondaria di secondo grado

Quanto contano le fonti nell’insegnamento della geostoria?

Il desiderio di conoscere: riflessioni di un’insegnante 

Quando insegniamo storia a scuola ci troviamo a combattere contro una serie di difficoltà pratiche: dover sintetizzare lunghi periodi e complesse dinamiche politiche o culturali in una manciata di ore; rendere comprensibile e auspicabilmente interessante per gli studenti una materia che a loro appare spesso distante e noiosa. Il primo problema ci costringe talvolta a una schematizzazione che rischia di diventare da un lato banalizzante, dall’altro troppo astratta. La seconda difficoltà è connessa alla natura stessa dell’insegnamento: il miglior maestro, come spiega Massimo Recalcati nel suo libro L’ora di lezione, è quello che chiarisce la materia ma allo stesso tempo riesce a destare nello studente il desiderio di saperne di più, sempre di più… Questo è il sogno di tutti noi insegnanti: lasciare una traccia nella memoria di chi ci ascolta, trasmettendo non tanto – o non solo – le date delle battaglie e i nomi dei generali, ma un metodo, una chiave per leggere la realtà e uno sprone a diventare, in qualunque campo, individui mentalmente attivi, interessati a scoprire e a conoscere e magari anche a creare, non solo fruitori passivi di tutto ciò che viene propinato dagli onnipresenti mass-media. Vorremmo insomma lasciare ai nostri studenti uno ktèma eis aièi, un possesso per sempre, per dirla con Tucidide. 

La giusta distanza 

La storia e la geostoria sono infatti tra le materie più adatte alla formazione intellettuale e persino etica di chi la studia con partecipazione e passione. La storia antica è infatti allo stesso tempo lontanissima e vicinissima al nostro mondo e alla nostra quotidianità. In classe mi capita spesso di fare collegamenti fra il mondo greco o romano e le dinamiche attuali, di cui si parla sui giornali o in televisione o su internet, ed è bello quando sono i ragazzi stessi a cogliere un’analogia o un richiamo tra le due epoche, perché mostrano in questo modo di aver compreso sia la vicenda antica sia quella moderna, scavando sotto la superficie e osservando i fatti con uno sguardo nuovo e acuto. Allo stesso tempo, però, il compito dell’insegnante è anche quello di evitare un appiattimento che porti a considerare tutti i secoli e le società uguali tra loro, perché sarebbe tanto scorretto quanto valutare il passato morto e sepolto e inutile al presente. Si tratta di trovare la giusta distanza.

L’utilità delle fonti  

In questo arduo compito ci vengono in aiuto le fonti antiche: testi letterari ed epigrafici, ma anche immagini e oggetti relativi alle epoche di cui dobbiamo parlare hanno infatti una duplice utilità nell’ambito dell’insegnamento. Da un lato permettono di ovviare al rischio che la nostra spiegazione risulti troppo astratta, offrendo un aggancio alla realtà concreta, dall’altro sono un mezzo immediato per spiegare in modo sintetico ma coinvolgente un evento o un fenomeno, mostrando sia le affinità sia le inevitabili divergenze tra la nostra società e quella antica. Penso a quanto sia utile l’orazione Per l’uccisione di Eratostene di Lisia per comprendere la condizione della donna nell’Atene del V secolo a.C., o il complesso iconografico dell’Ara Pacis per spiegare la politica di Augusto. Anche gli oggetti hanno in questo senso una grande importanza, soprattutto quando spieghiamo epoche come la preistoria, nelle quali non esistono fonti scritte: sappiamo quanto sia cruciale nello sviluppo del genere umano la produzione dei chopper, o come sia significativa dal punto di vista religioso e culturale la presenza di corredi funebri nelle sepolture degli uomini di Neanderthal. 

Ieri e oggi 

Grazie alle fonti antiche possiamo introdurre in classe anche un discorso metodologico sul fact checking, ovvero sulla valutazione critica delle informazioni a nostra disposizione, che risulta cruciale non solo nell’approccio al passato ma anche nella lettura del presente. I testi letterari sono infatti spesso faziosi, parziali e fortemente ideologizzati, mentre le immagini e gli oggetti presentano una difficoltà di interpretazione che dipende dal loro essere testimonianze “mute” che si prestano a molteplici letture. Hanno quindi le stesse caratteristiche delle fonti d’informazione nelle quali si imbattono oggi i nostri studenti: articoli di giornale, blog, ma anche le migliaia di immagini che ci circondano e di oggetti che ci vengono proposti come simboli più o meno espliciti di un modo di vivere e pensare…un semplice spot pubblicitario di pochi secondi può racchiudere in sé una molteplicità di messaggi reconditi che solo chi ha la mente allenata può afferrare. Studiare le fonti del passato può dunque aiutarci a decrittare le voci del presente, cogliendo elementi di continuità e discontinuità senza cadere nella trappola della retorica e della propaganda. 

Oltre i luoghi comuni

Con un approccio concreto all’insegnamento della geostoria, che passi attraverso l’uso massiccio delle testimonianze antiche, è possibile quindi sfatare alcuni pregiudizi su questa materia. La storia non è una disciplina remota e ardua da attualizzare: dinamiche scottanti e attuali come le migrazioni dei popoli o la questione ambientale non sono un’esclusiva del mondo moderno ma problemi coi quali si sono confrontati anche uomini e donne antichi. Perciò esiste una stretta e naturale commistione tra storia, educazione civica e geografia, al di là dei programmi ministeriali. I netti confini che tracciamo oggi tra le varie discipline non venivano percepiti allo stesso modo dagli antichi e, per esempio, per i Greci, storia, geografia e mito si confondevano tra loro: lo dimostra il celeberrimo inizio delle Storie di Tucidide, nel quale si cita Minosse come primo talassocrate della grecità. Anche le fratture nette che siamo costretti a porre, per utilità didattica e pratica, tra le varie civiltà, non hanno naturalmente un reale fondamento, e ancora facendo appello alle fonti lo possiamo facilmente mostrare ai nostri studenti: Erodoto ci mostra quanto la civiltà Egizia sia presente nell’immaginario greco; tutta l’arte romana è prova dell’influenza che la Graecia capta di oraziana memoria ebbe sul ferus victor latino; un brano di Sant’Agostino o un’immagine di San Giorgio che uccide il drago (derivata dall’iconografia di Bellerofonte e la Chimera) illustrano a sufficienza quanto a lungo sia sopravvissuta l’eredità culturale classica nel mondo cristiano.      

Per approfondire

Consigliamo di vedere la registrazione dei live streaming già tenuti dagli storici A. Però e R.Rao – Fonti scritte per la geostoria e Insegnare la geostoria attraverso le immagini e di non perdere le loro prossime lezioni di Le Umanistiche Live – Temi e metodi per la geostoria.

Scopri l’opera

  • Le porte della storia” di Riccardo Rao e Anna Però – La Nuova Italia – Rizzoli Education, 2022 – Testo di geostoria per la scuola secondaria di secondo grado