Blockchain III: la proof-of-work e i suoi limiti

In un recente articolo e poi in un articolo successivo, abbiamo presentato alcune caratteristiche di base di una blockchain e cercato di affrontare il tema della sicurezza sia nei suoi aspetti crittografici che in quelli di integrità dei blocchi, facendo riferimento al funzionamento di Bitcoin.

In questo articolo concludiamo il discorso, avendo in sospeso da discutere il meccanismo di consenso per l’aggiunta dei blocchi.

Miner e Proof-of-Work

Come già detto, in una rete distribuita come quella costituita dagli utenti di una blockchain, manca un’autorità centrale che certifichi la validità delle operazioni. Si rende dunque necessario disporre di un meccanismo intrinseco che regoli i potenziali conflitti per l’inserimento di nuovi blocchi alla catena.

Nel caso di Bitcoin, i nodi deputati a questa operazione sono i cosiddetti miner. Per vedere accettato un blocco da loro composto, i miner competono nella risoluzione di un problema matematico che ha un elevato costo computazionale: aggiungere un numero alla fine del blocco in modo tale che il suo codice hash inizi con una certa quantità prestabilita di zeri. Il successo in questa operazione costituisce la cosiddetta proof-of-work (letteralmente: “prova di lavoro”), per la quale i miner ricevono una piccola ricompensa in caso di accettazione del blocco.

Questo consente una protezione della blockchain dagli attacchi del tipo DoS (Denial of Service), che risultano inefficaci, ma anche una maggiore equità tra i nodi  della rete: tutto ciò che conta è la capacità di calcolo a disposizione, non la quantità di Bitcoin che si possiede.

Un grafico che riporta il consumo globale di energia della rete Bitcoin negli ultimi dieci anni (fonte: CBECI). I consumi annuali di elettricità della rete Bitcoin sono maggiori di quelli di interi paesi (come ad esempio la Finlandia).

Non è tutto oro quello che luccica

La proof-of-work presenta diversi svantaggi:

  • è teoricamente vulnerabile ad attacchi al 51%, ovvero a monopolizzazioni della rete da parte di soggetti che potrebbero controllare la maggioranza delle risorse di calcolo e dunque modificare i blocchi senza aver bisogno del consenso degli altri;
  • rallenta moltissimo l’aggiunta di transazioni (si consideri che la rete Bitcoin registra circa 7 transazioni al secondo, contro le 1700 della rete VISA);
  • conferisce maggiore potere a chi ha a disposizione una grossa potenza di calcolo e hardware ad hoc, dunque favorisce chi ha la possibilità di fare grossi investimenti;
  • i calcoli fatti per la proof-of-work non sono riutilizzabili per altri scopi (scientifici, economici, ecc.) e dunque costituiscono un grosso spreco;
  • il consumo di energia causato dal mining è alto e si traduce in un importante costo economico oltre che in un elevatissimo costo ambientale; un report della casa bianca stima che le criptovalute siano responsabili dello 0,3% delle emissioni annuali globali di gas serra.

Per cercare di superare questi problemi, negli anni si sono proposti meccanismi di consenso alternativi. I meccanismi più quotati oggi sono la proof-of-stake e la delegated proof-of-stake, sulle quali alcuni restano comunque scettici.

Ma questa è un’altra storia, che forse racconteremo in futuro.

Approfondimenti

Teaching with memes

What is a meme?

Memes are now saturating the net  but they’re not a new concept at all. The root of the term dates back to ancient Greece. The Greek word minema means imitated.  The term “meme” was coined by evolutionary biologist Richard Dawkins in his 1976 bestseller The Selfish Gene. Though the book is mainly concerned with the propagation of genetic material, Dawkins briefly turned his attention to the propagation of cultural material. He observed that fashion and customs evolve rapidly, resembling the ways genes evolve. 

So what is a meme?

According to the media historian Patrick Davison, “an Internet meme is a piece of culture, typically a joke, which gains influence through online transmission.” Professor Limor Schifman defines it as “cultural information that passes along from person to person, yet gradually scales into a shared social phenomenon.

Brief history of internet memes

Internet memes are quite new, but their staying power is phenomenal. The dancing baby came out in 1996 and is considered by many to be the first digital meme. However many years before internet and the dancing baby, Kilroy with his long nose and bald head is considered to be the first meme engraved on the Washington DC WWII Memorial. 

According to the expert McCulloch “an internet meme is a template of sorts that spreads by people creating their own versions of and innovations on that template.” Soon after the dancing baby in 1994, people incorporated images into internet memes. Today, many memes consist of an image with overlaid text, which can be altered.

Ways to use memes in English lessons

There are several ways to use memes in class to energize our lessons. Here you’ll find some examples.

Spelling+Punctuation

  • Give your students a meme deleting the second part as you can see in the example below. 
  • Ask them to write the same sentence using the correct punctuation
  • Divide your students into small groups and ask them to create a funny meme using the same rules you’ve practiced in class.

Vocabulary

  • Once you’ve explained or practiced some vocabulary give your students some memes to explain. 
  • Ask them to create some memes using pictures of their classmates (great task when studying  emotions!!!)

Grammar

  • Use memes to teach grammar or as a starting point for grammar  exercises.

Literature

  • Ask your students to summarize a passage using memes. You can see an example below.
  • After creating a meme students can write a supporting paragraph explaining their choices.

Creative writing prompt

  • For lower levels memes are perfect for creative writing. 

Il mais

Il mais (Zea Mais L.) è un cereale cosmopolita coltivato in ogni parte del globo e ampiamente utilizzato nell’alimentazione umana, in zootecnia, nell’industria e nel campo delle energie rinnovabili.

Il mais, con un valore medio di amido di oltre il 70%, rappresenta il principale ingrediente glucidico nelle diete per l’alimentazione animale coprendo il 47% del fabbisogno totale (Baccino, 2022); rappresenta inoltre la fonte di sostentamento primaria delle popolazioni delle aree del mondo sottosviluppate, in particolar modo in Africa, Asia e America latina.

La granella di mais, nelle diverse forme utilizzate (granella integrale, farina di granella, granella schiacciata, fioccata), rappresenta il principale concentrato energetico nelle razioni animali. L’insilato di mais rappresenta, a livello globale, la base alimentare delle diete per ruminanti da latte e da ingrasso. A questo si affianca l’utilizzo dei residui industriali della lavorazione del mais e quelli derivanti dall’estrazione dell’amido e dell’olio (farina glutinata e glutine di mais, farina di estrazione), della produzione della farina (germe, crusca) e della produzione di biocarburanti (distiller di mais).

L’uso di questo cereale però presenta delle importanti criticità da non sottovalutare. Nel 2022 i prezzi medi di mercato del mais hanno subito un’impennata (+ 24,35% rispetto al 2021) dovuta al conflitto in Ucraina (principale Paese esportatore di mais a uso zootecnico) che hanno reso, di fatto, insostenibile il suo utilizzo (Baccino, 2022). Lo stesso Autore indica che negli ultimi 10 anni, la dipendenza dall’importazione di mais sia passata dal 15 al 50%. Questo dato viene confermato dal trend pubblicato da ISTAT (2023) relativo alla produzione del mais nazionale che è praticamente dimezzata negli ultimi 10 anni sia in termini di superficie (da circa 1 milione di ettari del 2010 agli attuali 563.704 ettari del 2022), sia in termini di produzione (85 milioni di quintali del 2010 agli attuali 46 milioni della campagna 2022).

Queste criticità si sommano all’aumento dei costi energetici (carburanti, elettricità), alla scarsa piovosità nelle aree maggiormente vocate alla produzione, alla riduzione delle risorse idriche e, non da ultimo, al taglio considerevole (-40%) dei pagamenti diretti della nuova P.A.C. (2023-2027) a sostegno degli agricoltori (Soldi, 2023).

Il mais è un cereale che, a fronte di ottime caratteristiche chimico nutrizionali, presenta delle criticità dal punto di vista ambientale. Le coltivazioni di mais presentano un’elevata richiesta di nutrienti che causa un forte impoverimento del terreno. Dalle fasi vegetative giovanili in poi presenta una bassa competitività con le infestanti ed è una coltura altamente suscettibile a numerose patologie e a diversi parassiti. Questi numerosi aspetti comportano un’alta dipendenza della pianta del mais dai fertilizzanti, dagli erbicidi, dai pesticidi e dai fungicidi. Tutto ciò causa, a livello globale, la lisciviazione dei nitrati, la contaminazione delle acque sotterranee, la riduzione della fertilità dei suoli e, non da ultimo, la perdita della biodiversità (EU commission, 2000).

Alla luce di tutte queste considerazioni, è ancora conveniente l’utilizzo di questo cereale? La migliore strategia per continuare a coltivare mais in modo sostenibile è quella di mettere in campo modelli produttivi per affrontare le molteplici criticità, come l’utilizzo di ibridi resistenti allo stress idrico, coltivare secondo i principi della precision farming e, non da ultimo per importanza, ottenere un prodotto di qualità che riesca a contenere i livelli di contaminanti (micotossine) garantendo ai consumatori un prodotto sicuro. 

Video consigliato

Giocando si impara con Arduino

È noto da sempre che ciò che apprendiamo attraverso il gioco, costa meno fatica e permane a lungo nel nostro bagaglio di conoscenze. Anche se non è facile creare modalità di apprendimento divertente nella scuola, ci è offerta una possibilità in questa direzione da Arduino, una simpatica interfaccia per PC, che permette di “inventare” piccoli automi e strumenti di misurazione più o meno complessi. Il concetto di base è che un PC è come un grande cervello ma senza mani, senza braccia  e con pochissimi organi di senso (la tastiera e il mouse). Arduino permette di espandere tutto questo. E’ una scheda elettronica che si collega direttamente tramite porta USB esattamente come un Pen Drive .

La scatola dei Lego

Proprio come con i mattoncini Lego, è possibile realizzare numerose e diverse applicazioni partendo da semplici componenti diversamente connessi fra di loro. La scheda è dotata di una serie di “pin” di connessione, ovvero dei piedini dove è possibile attaccare e staccare dei cavetti connettori, senza alcun attrezzo e senza alcuna saldatura. Oltre alla scheda è necessaria una tavoletta di connessione (la breadboard) predisposta anch’essa per il collegamento con i cavetti, con file di fori interconnessi fra di loro secondo una matrice. Su di essa si inseriranno i dispositivi che formeranno gli organi di senso,  le braccia e le gambe di Arduino. 

Gli “organi di senso”

Attraverso la breadboard è possibile collegare alla scheda qualsiasi tipo di sensore, ad esempio un sensore di pressione e temperatura, pH, movimento, posizione (angolare e lineare) ecc. È possibile trovare sensori con sensibilità più o meno elevata e conseguentemente anche con costi più o meno alti. Tuttavia per le finalità didattiche, sono sufficienti sensori non particolarmente sensibili, al costo di soli pochi euro per sensore. 

Il “cervello”

Dal PC, tramite apposito software (scaricabile in modo completamente gratuito) è possibile programmare Arduino per dirgli come e quando reperire i dati, dove depositarli e come rielaborarli. Il linguaggio di programmazione è abbastanza intuitivo, molto simile al C++, che molte classi e molti docenti già conoscono. Particolarmente interessante è la funzione grafica che permette di visualizzare l’andamento dei dati in arrivo sottoforma di funzione. Con la stessa finalità è anche possibile trasferire i dati direttamente su Excel per aggiungere ulteriori rielaborazioni, sia numeriche che grafiche. 

Le “braccia e le gambe”

Sempre attraverso il software è possibile anche dare ordini per la parte attiva, ovvero l’esecuzione di comandi diretti a dispositivi esterni. I comandi sono inviati sottoforma di segnale a bassa potenza, che risulta sufficiente nel caso di piccoli dispositivi, ad esempio diodi LED o di piccolissimi motori elettrici. Se si desidera governare potenze maggiori occorre predisporre un circuito di alimentazione apposito per questi dispositivi poi controllarne l’accensione attraverso un relè a sua volta comandato da Arduino (A corredo della scheda vengono forniti anche uno o più relè). In questo modo è possibile governare l’alta potenza come azionare un forno, una lampada, un motore ecc. 

E altro ancora…

Esistono intere comunità di appassionati che condividono su internet le loro applicazioni Arduino. La condivisione consiste nel fornire lo schema di collegamento della scheda e degli accessori e il codice software da caricare con il dispositivo. Questi siti mettono anche a disposizione manualistica, supporto per l’utilizzo delle istruzioni e chat per scambio di pareri e suggerimenti sui diversi progetti. Costituiscono un serbatoio di esperienze da cui attingere e da integrare con le esperienze nuove che la fantasia di ciascuno saprà suggerire. Tutto questo porta alla nascita di comunità virtuali di appassionati che si scambiano idee, accrescono le loro competenze in più ambiti, che giocano e che apprendono divertendosi.

Figura 1 Visione di insieme dell’interfacciamento di Arduino con sensori e dispositivi attuatori

Figura 2: Esempio di semplice dispositivo per la misurazione della CO2 prodotta da una fermentazione. Sul tappo del vaso è stato impiantato sensore di gas e di temperatura 

Figura 3: Esempio di una siringa modificata con aggiunta di sensore termobarometrico sullo stantuffo, utile per lo studio delle leggi dei gas

Figura 4: sito di acquisti on line con un esempio di scheda Arduino con alcuni accessori (Starter kit) e rispettivo costo. Nel medesimo sito, ricercando la parola “Arduino” compaiono oltre 9000 articoli

Comment combattre le blues d’après-fêtes?

Chacun de nous connait très bien les conséquences psychologiques de la rentrée après les vacances de Noël : chagrin, sensation de vide, mélancolie et retour du stress au travail. Nos élèves ne vont pas se soustraire à cette sorte de « spleen » qui caractérise le retour à la normalité. Fini la grasse matinée et les longs moments consacrés aux interactions sociales, aux sorties et à l’insouciance typique des vacances, ils rentrent à l’école assez déprimés. En plus, le mois de janvier constitue une période assez chargée en vue de la remise du bulletin scolaire. 

Face aux changements, notre corps a normalement besoin d’une phase de transition entre le bonheur à toute heure et le retour aux responsabilités. Il s’agit d’une sorte de « deuil » qu’il ne faut absolument pas éviter, mais chercher à vivre. Surtout, il faudrait transformer la nostalgie en d’excellents souvenirs. Comment ? Par exemple en proposant des activités amusantes et stimulantes comme l’organisation d’un voyage ou d’une vacance qu’on voudrait faire, d’une fête ou d’une soirée-karaoké entre copains, d’un bon diner pour sa famille ou ses amis, d’une friperie à domicile, d’une « veillée-animes », de moments de détente partagés, ….  

Et s’il est vrai qu’on ne peut pas éviter de parler de la journée internationale dédiée à la mémoire des victimes de l’Holocauste du 27 janvier, on peut également présenter les événements prévus ce mois comme le Carnaval de Guadeloupe et de Dunkerque, la Grande Odyssée Savoie Mont Blanc, la fête de la truffe, les Premiers Plans d’Angers, le Festival du Film Fantastique, le Festival de la Bande Dessinée, le Festival du Court Métrage, ou encore la fête du saint patron des vignerons.

Le but doit être celui de faire perdurer, un tantinet soit peu, les bienfaits des vacances et de ne pas retomber dans la routine qui assomme. Qu’il s’agisse de raconter, chanter, discuter, jouer, peu importe. Ce qui compte est le divertissement qui engendre toujours une dynamique joyeuse et stimulante ! Alors, vous êtes prêts à repartir du bon pied ?

Bibliographie

Sur la rentrée après les vacances de Noël :

Sur les événements de janvier 2023 :

Nebrija, el barquero que llenó el océano de palabras

Antonio de Nebrija tenía una mentalidad abierta, novedosa y pionera. Estas características hicieron que se convirtiera en el primer puente intelectual entre España y el Nuevo Mundo, no solo porque su gramática sirvió de inspiración para la redacción de las gramáticas y de los diccionarios de lenguas amerindias, sino también porque introdujo en su Vocabulario español-latino de 1495 la palabra canoa, primer término de una lengua precolombina en una obra lexicológica española y europea, solo tres años del primer contacto entre las dos culturas. 

Desde entonces el flujo de ida y vuelta no ha dejado de producir nuevas palabras, nuevas acepciones y de enriquecer el léxico del que disponemos los hispanohablantes (cfr. https://www.asale.org/damer/) como demuestran las recientes incorporaciones en la actualización 23.6 del diccionario en línea de la Real Academia Española (RAE): ej. ma, mujer o mama, o forro, persona muy atractiva (México).

Por eso, os aconsejo que, si viajáis a Madrid o alrededores entre enero y abril, visitéis la exposición Nebrija (c. 1444-1522), el orgullo de ser gramático (https://www.bne.es/es/agenda/exposicion-antonio-de-nebrija), que se puede ver en la Biblioteca Nacional hasta el 9 de abril para seguir descubriendo su genial figura. 

En el siguiente enlace podéis ver algunas actividades que se celebrarán durante estas semanas: https://www.nebrija.com/vcentenarioantonionebrija/conmemoracion-nebrija-2022.php

V centenario con sorpresa

La exposición, además de mostrar incunables, diccionarios y manuscritos, esconde una sorpresa final: un vídeo en realidad virtual, en el que con brío entrelaza dos sucesos vitales que tuvieron lugar durante el reinado de los Reyes Católicos: la construcción de la gramática de Nebrija y el viaje de Colón a América. 

 

Por cierto, ¿sabéis cuál fue el primer vocablo registrado en italiano? ¿En qué obra apareció? ¿No? Pues buscadlo, seguro que os llevaréis una agradable sorpresa.

La Croazia nello spazio Schengen e nell’area euro

Dai documenti originari alle registrazioni in P.D.

Profumi in Grecia e a Roma

I profumi hanno una particolare rilevanza in ambito storico, a causa della loro duplice natura. Da un lato infatti sono sostanze impalpabili, ma capaci di suscitare memorie ed emozioni, agendo direttamente sull’emotività umana: sono stati spesso al centro della riflessione dei pensatori del passato, e dunque sono utili indicatori per indagare la cultura dei vari popoli. D’altra parte sono anche beni materiali, inseriti in un processo di produzione e commercializzazione che permette di studiare il funzionamento delle economie antiche. 

Il profumo degli dei 

La connessione tra i profumi e la sfera del divino è sempre stata molto forte, forse proprio a causa del loro carattere effimero, intangibile, quasi spirituale. Le epifanie degli dèi sono segnalate da un profumo intenso e piacevole e alcune divinità in particolare, come Afrodite, hanno un rapporto strettissimo con i fiori e le essenze che da essi si ricavano: in una delle sue prime apparizioni nella letteratura occidentale, nel XXIII libro dell’Iliade, vediamo la dea della bellezza intenta a cospargere di olio di rosa il cadavere di Ettore, per preservarlo dalla corruzione.

Anche il nettare e l’ambrosia di cui i celesti si nutrono emanano un aroma soprannaturale, e lo stesso vale per alcuni luoghi riservati agli immortali, come le Isole dei beati, descritte per esempio da Luciano nel suo “romanzo di fantascienza” La storia vera. Inoltre il mito racconta innumerevoli vicende di fanciulli e fanciulle bellissimi e sfortunati, che dopo una tragica morte sono stati trasformati in fiori o essenze aromatiche. La vicenda più nota è forse quella di Mirra, l’eroina cui anche Vittorio Alfieri dedicò una memorabile tragedia.

La ragazza, figlia del re degli Assiri Cinira, colpita dalla vendetta di Afrodite si innamora del padre e, dopo essersi unita a lui sotto mentite spoglie, per il disonore viene tramutata nella pianta dalle cui lacrime ha origine la preziosa resina che prende il suo nome. Il legame tra profumi e divinità si riscontra anche in uno degli utilizzi principali e più antichi che le essenze avevano nel mondo antico: l’incenso in particolare veniva usato nelle cerimonie religiose e, secondo alcuni autori, come Plinio il Vecchio (I sec. d.C.) e Porfirio (III-IV sec. d.C.), fu solo in un secondo momento, quando l’umanità divenne più sofisticata, ma anche più corrotta, che si cominciò a bruciare e spargere incenso e altri aromi in occasione di nozze, funerali, banchetti e gare sportive. 

Il miglior profumo? Nessun profumo.

Le affermazioni di Plinio il Vecchio si collegano alla sua posizione moralista e critica nei confronti del profumo, visto come un lusso dispendioso proveniente dall’Oriente, che ha corrotto gli austeri costumi italici. Anche per i Greci il profumo ha un’origine orientale e “barbara”: i raffinati Lidi ne hanno insegnato l’uso ai Persiani e ai Greci d’Asia, cosicché per un Ateniese dalla vita frugale come Socrate l’eccessiva profumazione si addice a un animo servile e molle. In linea con la misoginia tipica della società greco-romana, è molto diffuso in letteratura l’assioma per cui una donna troppo profumata non può essere del tutto onesta: è emblematico in proposito il verso di Plauto (III-II sec. a.C.), divenuto proverbiale a Roma, mulier recte olet, ubi nihil olet, “una donna profuma in modo onesto quando non profuma di niente” (Mostellaria, v. 273).

Personaggi “negativi” come il golpista Catilina, il corrottissimo Verre e la regina Cleopatra (autrice forse di un trattato Kosmetikon, su belletti e profumi), sono stigmatizzati anche per la loro eccessiva familiarità con aromi ed essenze, strettamente connessi alla loro natura lasciva e pericolosa. Il lusso spropositato, di cui i profumi sono uno status symbol, è stato perciò spesso colpito anche dagli strali dei legislatori, fin dal VI secolo a.C., da parte dell’ateniese Solone, e poi a Roma, per esempio con la legge Oppia, varata nel 215 a.C., contro la quale scesero in piazza (precisamente in Campidoglio) le matrone romane, per chiedere che venisse mitigata. 

Chi disprezza compra   

L’aura negativa che accompagnava le essenze aromatiche si estendeva anche ai profumieri che le producevano e vendevano ed erano spesso di origine orientale, schiavi o liberti, considerati perciò, dai soliti autori benpensanti, persone vili, a conferma del generale discredito in cui si trovano le professioni manuali nel mondo greco-romano. Il pregiudizio di pensatori e legislatori non ostacolò però in alcun modo l’enorme successo commerciale dei profumi.

Sia ad Atene che a Roma esistevano quartieri interamente riservati alle botteghe dei profumieri, alcuni dei quali talmente noti che la loro fama è giunta fino a noi. In Grecia era celebre Plangone, una profumiera vissuta forse nel III secolo a.C., che ha dato il suo nome a un’essenza, il plangonion; nell’agorà di Atene lavoravano i profumieri anonimi cui si rivolse nel IV secolo a.C. Teofrasto, filosofo allievo di Aristotele, per ricavare informazioni tecniche da inserire nel suo trattato Sui profumi, il più antico sull’argomento.

A Roma, in età imperiale, operava invece Cosmo, citato spesso negli epigrammi di Marziale: amatissimo dalle clienti, confezionava pasticche profumate per rinfrescare l’alito e, naturalmente, un profumo battezzato col suo nome, il cosmianum. L’industria profumiera era dunque floridissima e sosteneva l’economia di intere regioni: l’India e l’Arabia felix, innanzitutto, ma anche Egitto, Giudea, le isole Cicladi e, in Italia, la Campania, che, secondo la tradizione, aveva sedotto coi suoi lussi e profumi persino l’esercito di Annibale, di stanza a Capua dopo la vittoria di Canne (216 a.C.), infiacchendolo a tal punto da determinarne la successiva disfatta. 

Quali profumi?  

Ogni importante profumiere, come si è visto, metteva a punto una sua personale ricetta profumata, proprio come avviene oggi con le maisons d’alta moda, ma gli ingredienti e i processi di produzione erano grosso modo analoghi: a una base di olio (d’oliva, di mandorle dolci, di sesamo) o acqua si mescolavano essenze aromatiche ricavate dalle piante (fiori, foglie, rami, radici o resine). I profumi che se ne ricavavano erano particolarmente delicati e sensibili al calore, perciò venivano conservati in recipienti di alabastro, nella cui fabbricazione erano specializzati i vasai dell’Attica e di Corinto e che sono stati infatti ritrovati in grande quantità dagli archeologi.

Tra le essenze più popolari e più antiche vi era l’olio di rosa, rhodinon, che conteneva in effetti una varietà di ingredienti, oltre ovviamente alle rose; particolarmente apprezzato era quello prodotto in Campania, a Napoli, Paestum e Pompei, dove si diceva che questi fiori avessero una fragranza speciale e sbocciassero due volte l’anno. La regione greca di Elide, patria della profumiera Plangone, era rinomata invece per il profumo all’iris, irinon; sull’isola di Cipro d’altronde, legata al culto di Afrodite e al suo mito, sono stati trovati resti di laboratori per la fabbricazione di essenze profumate risalenti al II millennio a.C.: particolarmente rilevante era qui la produzione del cipro, un’essenza che prende il nome appunto dall’isola, da cui si ricava il colorante noto come henna/henné. 

Ma gli aromi più preziosi e costosi erano quelli esotici: cassia, incenso, mirra, cinnamomo e nardo nati in Arabia felix, raccolti ed esportati dalla tribù dei Sabei, che vivevano di questo commercio ottenendo guadagni ingentissimi; cinnamomo e cardamomo dell’India, che avevano affascinato già Alessandro Magno; il balsamo di Giudea, una resina profumatissima ricavata da alberi che crescevano solo in due giardini di proprietà del re. Molte di queste sostanze, per esempio l’incenso e la mirra, ma anche i diversi oli profumati ai fiori, avevano inoltre un uso farmaceutico, come testimonia il medico greco Dioscoride nel suo trattato Materia medica (I d.C.).

Si usavano poi anche in cucina, sia per aromatizzare il vino (con mirra, mele cotogne, mirto, timo, ecc.) sia per impreziosire le pietanze che facevano bella mostra di sé sulle tavole dei più ricchi durante i banchetti, cucinate da veri e propri chef dell’epoca, come il celebre Apicio (I-II d.C.). Nel suo libro di ricette L’arte culinaria il cuoco vissuto ai tempi dell’imperatore Tiberio menziona una grande quantità di spezie indispensabili per la perfetta riuscita dei piatti, che sono per lo più quelle presenti anche nei ricettari moderni: zafferano, pepe, zenzero, sesamo, menta, origano, scalogno, ecc. 

Un piacere costoso

Per giungere fino in Grecia e poi a Roma, molti di questi aromi dovevano essere trasportati lungo tragitti di chilometri per mare e per terra, e perciò avevano costi altissimi, che superavano, secondo Plinio il Vecchio, i 400 denari la libbra (circa 327 grammi), ovvero (con molta approssimazione) intorno ai 9000 euro di oggi. Se pensiamo al fatto che tuttora un grammo di zafferano di buona qualità costa tra i 20 e i 30 euro, la notizia di Plinio non ci stupisce più di tanto, mentre forse condividiamo in parte il suo sconcerto, riflettendo sui costi stratosferici raggiunti dai profumi esposti nelle vetrine dei negozi di via Montenapoleone a Milano, o via del Corso a Roma, corrispondenti odierni delle botteghe di Cosmo e dei suoi colleghi, nel Vicus Tuscus o nel Vicus Unguentarius.

Allora come oggi, però, al profumo si associavano una serie di significati emotivi, sociali, culturali, che valevano di certo la spesa, almeno per chi se lo poteva (e se lo può) permettere.         

Per Approfondire

Consigli di lettura:

  • Giuseppe Squillace, Le lacrime di Mirra. Miti e luoghi dei profumi nel mondo antico, Il Mulino, 2015
  • Teofrasto, I profumi, a cura di Francesca Focaroli, La vita felice 2009
  • Plinio il Vecchio, Storia naturale, 3.1. Botanica (libri 12-19), Einaudi 1984 
  • Dioscoride, De materia medica, Anguana edizioni 2022
  • Apicio, Antica cucina romana, a cura di Federica Introna, Rusconi 2018