Tra storia e trasfigurazione

Sono passati 20 anni dall’attacco alle Twin Towers, al Pentagono, agli Stati Uniti e, più in generale, a quella libertà di movimento che in Occidente costituisce un fondamentale paradigma dei processi di globalizzazione. E questo ventennale cade nel mentre l’Afghanistan è da poco ritornato sotto il pieno e brutale controllo dei Talebani. Mai come in questa circostanza la ricorrenza si presta ben poco, se non nulla, a facili retoriche celebrative, richiedendo semmai un robusto supplemento di riflessione sugli scenari che in quel paese, così come nel complesso quadro delle relazioni internazionali, vanno configurandosi.

L’abbandono da parte americana ed europea, dopo una ventina d’anni di presenza militare, dei territori afghani è avvenuto nel peggiore dei modi possibili: non una transizione controllata bensì una fuga tumultuosa, che ha rivelato il sostanziale fallimento dell’intero disegno di «lotta al terrore» per come le Amministrazioni americane sono andate configurandolo nei fatti, per l’appunto dal 2001 in poi. La scelta di ritirare i contingenti militari occidentali da una parte del Medio Oriente, si inscrive peraltro all’interno di una strategia di lungo periodo, maturata già nel corso del decennio appena trascorso, il cui cardine è la scelta di non considerare più l’intera regione come strategica per gli interessi degli Stati Uniti e per la stessa Europa.

In tutta probabilità, i fuochi della contrapposizione si giocheranno sempre più spesso tra nuove aree di influenza: i cinesi ed i russi, tra di loro alleati come anche in competizione, presenti perlopiù in Africa e nel Medio Oriente continentale; gli americani e, in subordine, gli europei, nel Sud-Est asiatico, al pari di un rapporto di reciprocità con le monarchie del Golfo. Non a caso, la firma degli «accordi di Abramo» con Israele, si inserisce in queste dinamiche di lungo periodo, che stanno ridisegnando la configurazione di poteri e relazioni in quei luoghi. E non solo.

La pedina vagante rimane l’Iran che, sia pure in rapporto con Mosca e Pechino, persegue una sua diplomazia, di taglio nucleare. La questione, per capirci, non rimanda – nel suo insieme -alle fonti energetiche tradizionali, gli idrocarburi, ma ai nuovi assetti di un’economia dell’informazione e della conoscenza, maggiormente svincolata dagli spazi geografici come tali; non di meno, tuttavia strettamente legata a quel territorio globale dell’immaginario che è l’insieme della tecnologie della comunicazione.

E a tale riguardo il rimando all’11 settembre, ovvero a quegli eventi tragici che si svolsero in tempo reale, dinanzi alle televisioni di buona parte del mondo, è qualcosa di più di un ricordo e di un memento. Poiché il fatto e la sua riproduzione in presa diretta, attraverso i mass media, come se ne fossimo tutti immediati protagonisti, costituì uno  passaggio epocale nel modo di intendere la cronaca e la storia. I terroristi che avevano dato corso ad una tale catastrofica vicenda, peraltro non potevano non saperlo e – quindi- calcolarlo come effetto di lungo periodo. 

Si trattava, concretamente, di un’incredibile commistione tra i fatti (un omicidio di massa in tempo reale, laddove la paternità del delitto era apertamente rivendicata) e la loro raffigurazione collettiva, come se l’intero pianeta fosse stato trasformato in una surreale scenografia degli orrori. Infatti, l’11 settembre rimane fondamentale, nelle nostre coscienze, soprattutto per due ordini di motivi: la dirompenza scenica della violenza terroristica, che catalizza l’attenzione collettiva come, al medesimo tempo, ne indirizza anche sentimenti, atteggiamenti e, quindi, comportamenti; l’affermazione che al potere degli Stati sempre più spesso si contrappone quello di movimenti del terrore, organizzati non tanto su base strettamente spaziale e geografica bensì sulla scorta di un forte radicamento su quel territorio virtuale che rimanda a tutti i mezzi di comunicazione di massa e alla loro capacità di produrre coscienza ed emozioni comuni.

C’è senz’altro un dato politico nelle Twin Towers (il cosiddetto «attacco all’Occidente»), ossia il conflitto con il radicalismo islamista; ma anche un aspetto simbolico, ovvero la consapevolezza che un nuovo terreno di scontro è la conquista dell’immaginario di massa, dove si generano sia mobilitazioni che contrapposizioni, identità, adesioni così come dinieghi e rifiuti. 

È il nuovo modo di declinare un tema vecchio quanto la società di massa: la conquista del consenso, che si traduce in legittimazione delle scelte politiche. Un tempo si sarebbe parlato di «fronte interno»; oggi, nell’età in cui pubblico e privato si contaminano vicendevolmente, forse è meglio riflettere su come la “guerra” sia sempre più spesso, al medesimo tempo, un fenomeno immateriale (di cui abbiamo percezione, nei paesi a sviluppo avanzato, solo sul piano delle comunicazioni di massa) e una sgradevole compagna delle nostre esistenze, occupando la nostra immaginazione ma, non per questo, accrescendo di pari passo la nostra coscienza.

Per certuni, in fondo, è come una sorta di War Game. Anche se le drammatiche immagini del crollo dell’Afghanistan dinanzi alla velocissima avanzata talebana, con tutti gli effetti e i cascami che ciò sta comportando già da adesso, a partire dalla cancellazione dei diritti delle donne, impone di riconsiderare daccapo il rapporto che intratteniamo con i dati della realtà, destinata comunque a imporsi su ognuno di noi con la forza dei fatti.

Affermare che l’11 settembre costituisca in sé uno spartiacque storico è quindi, francamente, improprio. Non lo è, invece, il ritenere che gli eventi che si legano ad esso – ovvero non solo a quel giorno ma ai tempi immediatamente successivi, legati quindi alla sua progressiva ricezione nell’immaginario di massa – siano strettamente correlati alla crescente crisi delle sovranità nazionali: lo Stato-nazione, per come dalla seconda metà del Seicento in poi è andato affermandosi, fino alle più recenti cittadinanze democratiche, sta infatti rivelando la sua debolezza dinanzi ai processi di globalizzazione.

I terroristi che militano nelle formazioni del radicalismo islamista, sono pienamente consapevoli di una tale situazione. Ciò che mercati globali portano con sé è anche la porosità di confini, quindi l’illusorietà che ai processi di massa si possa porre un argine con strumenti e misure pensate in un’altra epoca. Questo, in fondo, ci ricorda l’attacco distruttivo alle Twin Towers: ci pensavamo maggiormente liberi ma ci siamo scoperti sempre di più fragili. E quindi indifesi.

È forse bene evocare un ultimo riferimento: nella coscienza di molti persone, la ricorrenza dell’11 settembre rimandava, fino al 2001, ad un altro evento traumatico, ossia il feroce e implacabile colpo di stato di Augusto Pinochet Duarte, che trasformò il Cile in una sorta di laboratorio civile e sociale, all’ombra del liberismo economico e della violenza di Stato. In quest’ultimo caso, il trauma che ne derivò era quello che veniva prodotto in una società ad economia industriale, travolta da un potere dispotico, liberticida e dittatoriale.

Non esiste contrapposizione ideologica, e neanche competizione politica, tra i due eventi storici di cui stiamo parlando ma senz’altro una sequenza storica, un rapporto tra un prima (il Cile del golpe) ed un poi (il terrorismo contro gli Stati Uniti). Un legame che rimanda non solo ad successione cronologica bensì ad una trasformazione logica: le minacce alla democrazia, in Cile, derivavano da forze interne, prima di tutto l’esercito e la coalizione di consensi che aveva costruito intorno a sé; negli Stati Uniti, sono invece il risultato di forze esterne, il fondamentalismo terrorista, la cui legittimazione non è mai legata all’appartenenza a territori sovrani bensì al suo costituire un attore che si muove liberamente in essi. A tutto ciò si lega adesso la fibrillazione afghana, destinata a ridefinire parte delle dinamiche geopolitiche regionali. E non solo. Questo, in fondo, è il lascito che, anche nella riflessione storica, ci deriva dagli scenari sui quali ci siamo soffermati.

La fortuna iconografica di Dante e della Commedia in età moderna

Le celebrazioni dantesche di quest’anno hanno riportato l’attenzione degli studi non solo verso l’ambito letterario e storico medievali, ma anche verso le infinite variazioni del mito di Dante in età moderna e contemporanea con lo scopo di analizzarne le ragioni ideative, le finalità, i modelli di riferimento e l’inesausta vitalità.

L’interpretazione romantica

L’interpretazione romantica, e di seguito simbolista, della poesia dantesca, ma anche la stessa fortuna iconografica del Poeta, spesso collimano con la ripresa da parte degli artisti dei modelli michelangioleschi, in cui terribilità, tragedia e grandiosità si incarnano in visioni apocalittiche e in corpi titanici. Si devono al pittore inglese John Flaxman (1755-1826) e al pittore svizzero Heinrich Füssli (1741-1825), in piena temperie protoromantica legata alla nuova sensibilità del Sublime, i primi affascinanti recuperi delle tematiche dantesche, in particolare della Divina Commedia a cui il primo dedica una serie di disegni durante il viaggio in Italia (1792-1793, poi stampati nel 1802 a Roma)  e il secondo una serie di acquerelli realizzati anch’essi durante un lungo soggiorno in Italia (1770-1778) e il cui modello sono gli affreschi michelangioleschi nella cappella Sistina, studiati a lungo e con fervore. Nascono così Dante e Virgilio nella distesa ghiacciata del Cocito (Zurigo, Kunsthaus) [1] e Paolo e Francesca trascinati dal vento (Chicago, The Art Institute) [2], nei quali rigore compositivo e tensione drammatica si fondono in una visione onirica che sembra preludere la ben più articolata operazione illustrativa realizzata dall’inglese William Blake (1757-1827) tra il 1824 e il 1827.

Questa serie è costituita da centodue acquerelli, commissionatigli dal collega e amico John Linnell, di cui settantadue per l’Inferno, venti per il Purgatorio e dieci per il Paradiso, sempre avendo come riferimento figurativo l’opera di Michelangelo, nei quali potenza visionaria, illustrazione a tratti ingenua e valori simbolici si fondono in un commento visivo dei versi danteschi, spesso travalicando il testo stesso [3].

Un’affascinante testimonianza di rielaborazione dell’iconografia di Dante si ha proprio in età post neoclassica quando il marchese romano Carlo Massimo, per il Casino della propria villa nei pressi di San Giovanni in Laterano, commissiona (1817) ai pittori tedeschi del gruppo dei Nazareni una decorazione dedicata alla tradizione letteraria italiana: la Divina Commedia, l’Orlando furioso e La Gerusalemme liberata.  Philip Veit (1793-1877) dipinge, tra il 1818 e il 1824, il soffitto della sala dedicata a Dante con la raffigurazione dell’Empireo e, tra il 1825 e il 1828, Joseph Anton Koch (1768-1839) decora le pareti con Dante addormentato e il sogno della selva oscura [4], La penitenza dei sette peccati capitali, Purgatorio e Inferno ispirandosi alle raffaellesche Stanze Vaticane, così come ai modelli quattrocenteschi.

Ma è con l’età romantica che dall’illustrazione dei versi si passa a una libera reinterpretazione dei temi danteschi con una capacità di evocazione del tutto innovativa. Basti pensare a quel capolavoro che è La barca di Dante (Parigi, Musée du Louvre) [5] di Eugène Delacroix (1798-1863) che l’artista dipinge nel 1822 per il Salon di quell’anno. Tratta dall’VIII canto dell’Inferno, la scena raffigura Dante terrorizzato dalle anime dannate che, emergendo dalle acque immote della palude Stigia, cercano di salire sulla barca, mentre Virgilio gli tiene la mano e un titanico Caronte, ripreso dai nudi michelangioleschi, spinge il lungo remo. Il giovane Delacroix tuttavia guarda alla propria contemporaneità poiché la composizione piramidale, i corpi statuari mossi da tensioni e torsioni drammatiche, la tavolozza giocata sui bruni, i grigi, gli azzurri e le terre deriva direttamente dalla monumentale Zattera della Medusa (Parigi, Musée du Louvre) dipinta tra il 1818 e il 1819 da Théodore Géricault (1791-1824) che aveva suscitato grave scandalo nell’establishment accademico: il medesimo effetto che ottiene Delacroix, subissato di critiche, ma difeso da un maestro come Antoine-Jean Gros che paragonò il dipinto all’esuberante forza evocativa della pittura di Rubens.

Per ritrovare una potenza simile bisogna arrivare al 1880 quando Edmond Turquet, segretario di stato alla presidenza del consiglio per l’istruzione e le belle arti, commissiona allo scultore Auguste Rodin (1840-1917) la porta monumentale per l’accesso al Musée des Arts Décoratifs di Parigi. Un’opera rimasta incompiuta e dalla gestione tormentata, ma che rappresenta una delle più alte testimonianze della rielaborazione simbolista delle tematiche dantesche.

Per questa monumentale porta bronzea ispirata alla cantica dell’Inferno l’artista, in un primo momento, aveva pensato a una divisione in pannelli simile a quella della Porta del Paradiso, realizzata da Lorenzo Ghiberti per il Battistero fiorentino, ma fin dal secondo bozzetto (1880), prendendo a modello il Giudizio Universale di Michelangelo, elimina la divisione dei battenti e sceglie solo alcuni episodi del testo di Dante che mescola ad un’infinità di figure di grandezza diversa. I gessi e le varie versioni bronzee realizzate dopo la morte dell’artista testimoniano lo stravolgimento del concetto di porta scolpita: le figure, a gruppi o singole, si spingono ben al di fuori del tradizionale basso o altorilievo e documentano il dinamismo prorompente della proposta rodiniana.

La struttura architettonica è come negata dall’emergere per ogni dove di teste urlanti, di arti in movimento, di corpi in caduta libera o impegnati in una faticosa, quanto inutile risalita: la materia, il bronzo appunto, sembra abbandonare la propria forma definita per deformarsi sotto la spinta del calore e del terrore oscuro del mondo sotterraneo che la sua presenza separa dal mondo reale. Tra le figure più significative si riconosce, al centro dell’ampio timpano rettangolare, quella del Pensatore, nota in molte versioni [6], che rappresenta allegoricamente lo stesso Dante e che, con la sua postura rannicchiata e l’atteggiamento corrugato, non tarderà a suggestionare molti altri scultori, non solo francesi. Poste sulla sommità dell’architrave e concepite come figure a tutto tondo stanno le Tre ombre, gruppo di derivazione dantesca composto di tre nudi maschili che sembra replicare la stessa figura in tre pose differenti. Alla Commedia si riferiscono parimenti diversi episodi posti sui due battenti e sulla cornice, come il gruppo con Il conte Ugolino mentre divora i suoi figli, soggetto più volte realizzato dall’autore anche in statue di grandi dimensioni [7] e quello raffigurante Il bacio, in riferimento al noto episodio di Paolo e Francesca, anch’esso soggetto ricorrente sviluppato dall’autore in molteplici versioni [8].

Tra questo capolavoro simbolista, fuso in bronzo in alcuni esemplari dopo la morte di Rodin, e il dipinto di Delacroix corre quasi un secolo di cultura romantica e tardo romantica che di Dante costruisce il mito iconografico, nutrito soprattutto a livello popolare dall’edizione illustrata della Divina commedia prodotta da Gustave Doré tra il 1861 e il 1868 [9].

Dante e la cultura dell’Italia unita

In specie con la Restaurazione e con l’impegno di snazionalizzazione programmaticamente condotto dal governo austriaco, si era sviluppato un florilegio di panegirici, elogi, apologie di Dante da cui pittori, scultori e incisori pescarono a piene mani dalle drammatiche vicende del Poeta e dal repertorio dantesco. Il milanese Giuseppe Bertini alla Great Exhibition di Londra del 1851 aveva presentato la monumentale vetrata con il Trionfo di Dante affiancato da Matelda e Beatrice [10], poi acquistato da Gian Giacomo Poldi Pezzoli, per collocarlo nel suo palazzo milanese in quell’ambiente, commissionato dal 1853 a Luigi Scrosati e allo stesso Bertini, chiamato Gabinetto Dantesco: una fusione tra il gusto preraffaellita e quello orientalista. Una replica di quella vetrata fu esibita alle iniziative fiorentine del 1865, in occasione del sesto centenario della nascita di Alighieri, iniziative vissute come dichiarazione di patriottismo e di fede nell’avvenire dell’Italia visto che l’impresa dell’Unità di era compiuta con successo.

Dal Conte Ugolino nella torre di Giuseppe Diotti [11], acquistato dal collezionista Paolo Tosio per il proprio palazzo bresciano, alla statua scolpita da Enrico Pazzi e inaugurata al centro della piazza di Santa Croce da re Vittorio Emanuele II (14 maggio 1865) [12], Dante passava da esempio morale e intellettuale a icona immediatamente riconoscibile come mediatrice di significati politici, civili e identitari della nuova Italia. Da quel momento tutte le principali città italiane e i luoghi danteschi si dotarono di monumenti e di effigi del Poeta: da quella corrusca ed essenziale di Vincenzo Vela (1865; a Padova) e di Ugo Zannoni (1865, a Verona) a quella di Tito Angelini (1871, a Napoli) al narrativo ed esplicitamente patriottico e irredentista monumento creato da Cesare Zocchi per Trento (1896).

Il 1921 è occasione di nuove celebrazioni dantesche, celebrazioni dedicate al VI centenario della morte e che coincidono, simbolicamente, con la Marcia su Roma: Dante rinverdisce in questa occasione, che ha come epicentro Ravenna, il proprio ruolo di padre della Patria e di profeta della Nazione. In quell’anno viene annunciata la pubblicazione dell’Inferno, prevista per il 1922, in una grandiosa edizione in folio illustrata da tavole disegnate e dipinte dal parmense Amos Nattini [13] e con il sostegno, morale, di Gabriele d’Annunzio che, nell’ottobre 1920 aveva acquistato per 25.000 lire l’esclusiva sulla monumentale xilografia creata dall’amico Adolfo De Carolis, che egli battezza Dante Adriacus [14] e di cui distribuisce trecento copie a Fiume, l’utopica repubblica destinata, in realtà, a sciogliersi nel Natale di quell’anno. Dante viene definitivamente trasformato in icona da d’Annunzio inserendolo nell’allestimento della Biblioteca del Mappamondo nel Vittoriale degli Italiani a Gardone sul Garda, il suo estremo rifugio, come nume tutelare, non a caso insieme a Michelangelo [15].

La continuità della fortuna iconografica dantesca nel corso del Novecento, l’ispirazione che ne hanno tratto anche artisti, autori teatrali, cineasti, musicisti, fotografi e performer contemporanei dimostrano quale vitalità di suggestioni, invenzioni e interconnessioni possieda ancora oggi la Divina Commedia, quale metafora della condizione umana di cui l’Ulisse dantesco resta, tra gli altri, uno dei più potenti testimoni: “Fatti non foste per viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza…”

Le immagini

 [1] Johann Heinrich Füssli, Dante e Virgilio sul fiume Cocito ghiacciato, 1774, penna e inchiostro bruno acquerellato, 39 x 27,4 cm, Zurigo, Kunsthaus.

[2] Johann Heinrich Füssli, Dante Swoons before the Soaring Souls of Paolo and Francesca, Virgil at his Side, 1818 circa, acquaforte e acquatinta su carta avorio, 47 × 30,2 cm (incisione); 50 × 33,2 cm (foglio), Chicago, The Art Institute.

[3] William Blake, The Simoniac Pope, 1824-1827, inchiostro e acquerello su carta, 52,7 × 36,8 cm (foglio), Londra, Tate Gallery.

[4] Joseph Anton Koch, Dante nella Selva con le Fiere e Virgilio, 1818-1828, affresco, Roma, Casino Massimo Lancellotti, sala di Dante.

[5] Eugène Delacroix, Dante et Virgile (detto La barque de Dante), 1822, olio su tela, 189 x 241,5 cm, Parigi, Musée du Louvre.

[6] Auguste Rodin, Il pensatore, 1903, bronzo, 180 x 98 cm, Parigi, giardino del Musée Rodin.

[7] Auguste Rodin, Ugolino, 1882-1906, gesso, 139,2 x 173 x 278,6  cm, Parigi, Musée d’Orsay (donato dall’artista nel 1916).

[8] Auguste Rodin, Il bacio, 1885 circa, gesso patinato,  86 x 51,5 x 55,5 cm, Parigi, Musée Rodin.

[9] Gustave Dorè, Divina Commedia, Inferno, Canto X, Farinata degli Uberti si rivolge a Dante.

[10] Giuseppe Bertini, Il Trionfo di Dante, 1851-1853, vetrata dipinta, 170 x 61 cm, Milano, Museo Poldi Pezzoli, Studiolo dantesco

[11] Giuseppe Diotti, Il conte Ugolino nella Torre, 1831 circa, olio su tela, 173,5 x 207,5 cm, Cremona, Museo Civico Ala Ponzone.

[12] Enrico Pazzi, Monumento a Dante Alighieri, 1865, Firenze, Piazza Santa Croce

[13] Amos Nattini, Divina Commedia, Inferno, canto XVII, Gerione

[14] Adolfo de Carolis, Dantes Adriacus, 1921, xilografia, 98 x 68,5 cm, Ravenna, Museo Dantesco. La xilografia fu donata da d’Annunzio al comune di Ravenna in occasione delle celebrazioni del 1921 e il poeta la corredò di una dedica autografa: “A Ravenna illuminata per sempre da questa ‘Santa lampada’ Gabriele D’Annunzio ‘suso in Italia bella’ giugno 1921”.

[15] Vittoriale degli Italiani, un particolare della Biblioteca del Mappamondo con la xilografia di Adolfo de Carolis, Dantes Adriacus, Gardone Riviera

1,2,3… si gioca!

Il gioco e la scuola non sono sempre andati d’accordo. I bambini e le bambine che giocano non imparano, il tempo del gioco deve essere separato da quello della didattica, il gioco è bello quando consente di imparare qualcosa… ma è proprio così?

Secondo lo storico e linguista Johan Huizinga, il gioco è innanzitutto -e sopra ogni altra cosa- un atto libero. Il gioco comandato non è più gioco. Tutt’al più può essere una riproduzione obbligata. Questo dovrebbe escludere dal panorama ludico tutte le attività intenzionalmente istruttive che talvolta, anzi spesso, si propongono a scuola.

Con il gioco si impara, sì, ma non necessariamente tabelline o analisi grammaticale. A ben vedere, la parola gioco si muove all’interno di una straordinaria polisemiaGioco è sicuramente l’attività improduttiva che fa divertire gli esseri umani e che i bambini e le bambine conoscono e mettono in pratica in maniera istintiva appena si incontrano.

Si chiama gioco, però, anche lo spazio lasciato libero tra due ingranaggi diversi. Quando un artigiano, o un’artigiana, ovvio, non riesce a stringere tra loro due diversi pezzi, usa spesso l’espressione “fa gioco”. Questa accezione è sicuramente interessante e, insieme al divertimento tipico dell’attività ludica, parla direttamente all’azione dei/delle docenti. Una progettazione didattica, per essere accattivante e motivante, deve avere entrambi questi due significati: l’interesse suscitato dall’azione ludica e lo spazio di libertà garantito dal “fare gioco”.

Non basta, però: la parola gioco richiama un’ulteriore suggestione, che è quella dell’”entrare in gioco”. Si entra in gioco quando si partecipa attivamente, ci si sente pienamente coinvolti nella realtà che si costruisce insieme ad altri. Rimanere ai bordi del campo, osservare decisioni e schemi dall’esterno dà un senso di frustrazione e di estraneità. Questo terzo significato, quindi, chiarisce la necessità dell’inclusione di tutte le diversità nella didattica. 

Il gioco a scuola, quindi, non come stratagemma per rendere più appetibili contenuti indigesti, ma come riferimento culturale e schema mentale dei/delle docenti per interpretare una realtà complessa come quella didattica. Non resta che indossare scarpe comode ed entrare in campo. 

Uno, due, tre…si gioca!

Il gioco degli scacchi: uno sport per la mente

Il tema che abbiamo deciso di trattare questo mese è quello del gioco a scuola. Nel riflettere su quale approfondimento proporre ci sono venuti in mente diversi giochi da tavolo molto validi che proponiamo regolarmente tra cui il Senet, il Ludus Duodecim Scriptorum e gli Scacchi.

I primi due giochi Ginevra li propone durante gli approfondimenti di storia legati alle grandi civiltà; per quanto riguarda gli scacchi invece, Giuditta li propone nella normale attività curricolare come potenziamento di innumerevoli competenze e abilità. L’esperienza di Giuditta con gli scacchi è iniziata nel 2009, quando per la prima volta si è avvalsa della valida competenza degli istruttori e delle istruttrici del Circolo UST di Trento per guidare i bambini e le bambine nella scoperta di questo gioco. In seguito, dopo aver avuto modo di comprendere il meccanismo alla base del gioco e in che modo questo potesse diventare un valore aggiunto a scuola, Giuditta ha seguito alcuni corsi per diventare istruttrice a sua volta.

Il movimento dei pezzi, legato a regole geometriche fa subito pensare che gli unici vantaggi che si possano avere dalla pratica costante di questo sport siano quelli di sviluppare la geometrizzazione del pensiero e le abilità di calcolo, tuttavia questo è solo uno degli aspetti positivi di questo gioco dalle innumerevoli sfaccettature. Ogni partita prevede che i due avversari muovano i pezzi a turno: questo aiuta i bambini e le bambine a sviluppare la pazienza. Ad ogni mossa segue una contromossa, e ogni azione ha una causa e una conseguenza, questo permette di lavorare sulla successione spazio-temporale e sulle relazioni di causa ed effetto. 

Prima di muovere un pezzo il giocatore o la giocatrice deve osservare la scacchiera, la posizione dei pezzi e valutare la mossa appena fatta dall’avversario; quando muove, deve prevedere cosa farà l’avversario o l’avversaria. Tutto questo comporta un rafforzamento delle capacità di osservazione, riflessione, memorizzazione, astrazione, previsione e decisione. Man mano che si imparano nuove strategie da mettere in pratica, si rinforzano anche le competenze di memoria e si sviluppa in particolare la memoria visiva. Studiare strategie codificate permette inoltre di acquisire un metodo di indagine e analisi e di sviluppare capacità di progettazione in vista di uno scopo. 

A tutto questo si aggiunge la necessità di sviluppare attitudini psicologiche, di creatività e fantasia necessarie alla risoluzione dei problemi che si devono affrontare durante la partita. Infine, ma non ultimo per importanza, il gioco degli scacchi permette di consolidare e potenziare il controllo emozionale sia per gestire le emozioni durante la partita, sia per gestire la pressione pre-partita e le emozioni in caso di vittoria e sconfitta. Per esperienza diretta possiamo dire che, dopo un training di tre mesi in classe seconda, i bambini e le bambine dimostrano tempi di attenzione più lunghi e maggiore capacità di mantenere una posizione composta al banco rispetto a bambini e bambine che non praticano questo sport.

In classe quinta si ottengono sessioni di gioco della durata di 40-60 minuti in cui gli alunni e le alunne dimostrano concentrazione e attenzione costantiQuesti risultati si riflettono nella didattica di tutti i giorni, durante le attività individuali e gli esercizi in classe, dove gli alunni e le alunne dimostrano concentrazione, autonomia e spiccata capacità nella risoluzione di problemi.

Il gioco degli scacchi è inoltre uno sport che permette di promuovere la parità di genere in quanto non ci sono disparità legate alla forza e prestanza fisica. Questo gioco può essere inoltre praticato da bambini e bambine con disabilità fisica e utilizzato con efficacia e soddisfazione anche per i bambini e le bambine che presentano disturbi specifici di apprendimento. Anche per introdurre il gioco degli scacchi abbiamo deciso di partire da una storia; la nostra scelta è caduta sul passaggio di “Alice attraverso lo specchio” in cui Alice incontra la Regina Rossa e diventa un pedone della scacchiera.

Il video qui proposto è suddiviso in tre parti:

  • prima parte: lettura e interpretazione della storia;
  • seconda parte: presentazione del movimento dei pezzi degli scacchi;
  • terza parte: videotutorial con i passaggi per realizzare il minilapbook contenente la scacchiera portatile.

Video

 

MATERIALI AGGIUNTIVI

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LE AUTRICI

Ginevra G. Gottardi
Esperta di attività storico -artistiche, insieme a Giuditta Gottardi ha fondato il centro di formazione Laboratorio Interattivo Manuale, un atelier dove creatività e didattica si incontrano.

Giuditta Gottardi
Insegnante di scuola primaria, insieme a Ginevra Gottardi ha creato il sito Laboratorio Interattivo Manuale, una piattaforma digitale di incontro e discussione sulla didattica attiva per migliaia di insegnanti.

Entrambe sono autrici Fabbri–Erickson.

Un été à l’ombre des… polars

Et oui, mes chers passionnés de Proust, aucune nouvelle édition de la Recherche, cet été. Du reste, le grand classique du XXe siècle français n’est peut-être pas le genre de lecture à glisser dans votre valise et auquel s’adonner sous le parasol. Le succès international rencontré par la série Lupin, dans l’ombre d’Arsène, mise à disposition de ses abonnés par la plateforme Netflix le 8 janvier 2021, a relancé l’intérêt du public envers les romans de Maurice Leblanc, créateur du célèbre gentleman cambrioleur Arsène Lupin.

Grâce à ce classique indémodable de la littérature populaire, les libraires ont vu soudain redécoller leurs ventes. Écrivain et journaliste né à Rouen en 1864, Maurice Leblanc est le père du personnage Arsène Lupin, devenu l’archétype du gentleman-cambrioleur, maitre du déguisement.

Son succès commence en 1905, lorsque Pierre Lafitte, directeur du mensuel Je sais tout, lui demande une nouvelle inspirée des aventures de Sherlock Holmes. À cette époque, en effet, Conan Doyle connait un succès  extraordinaire grâce à la publication, en France, des enquêtes de son héros Sherlock Holmes en 1902. Après les critiques de son confrère anglais, Leblanc utilise alors un stratagème en syntonie avec son héros, Arsène Lupin, en appelant son ennemi, le détective britannique, Herlock Sholmès et le meilleur ami de celui-ci, Wilson.

L’œuvre  (L’Arrestation d’Arsène Lupin) connait un grand succès, mais son auteur, qui rêve de devenir Flaubert ou Maupassant, souffre de ne pas avoir gagné la renommée auprès des lettrés. Malgré son scepticisme envers le potentiel d’une série en livres, Leblanc donne une suite à la nouvelle et poursuit l’écriture de nombreux romans (17), nouvelles (38) et pièces de théâtre (5) jusqu’à sa mort, en 1941, à Perpignan.

Grâce à Arsène Lupin, Leblanc crée ainsi un type, celui du « caméléon et justicier, anarchiste et dandy » (Justicier, anarchiste et dandy: pourquoi Arsène Lupin continue de séduire) qui a inspiré plusieurs adaptations pour le théâtre, la radio, l’opérette, les bédés, les mangas, le cinéma et la télévision.

Les passionnés de Lupin, qui ont fondé en 1985 l’association Les Amis d’Arsène Lupin, ont même retrouvé et répertorié les lieux qui ont constitué le décor des aventures de leur héros et créé de vrais itinéraires touristiques. Et alors, cet été faites le plein de soleil en lisant les romans de Leblanc et partez sur les traces du célèbre gentlemen cambrioleur !

Bibliographie essentielle

Romans et nouvelles:

  • Arsène Lupin, gentleman cambrioleur (1907)
  • Arsène Lupin contre Herlock Sholmès (1908)
  • L’aiguille creuse (1909)
  • Les confessions d’Arsène Lupin (1913)
  • L’ile aux trente cercueils (1919)
  • La comtesse Cagliostro (1924)
  • La femme aux deux sourires (1933)
  • Les milliards d’Arsène Lupin (1941)

Théâtre:

  • Arsène Lupin (1908), pièce en 4 actes, écrite par Francis de Croisset et Maurice Leblanc
  • Une aventure d’Arsène Lupin (1911), saynète représentée au music-hall La Cigale

Cinéma et télévision:

  • Arsène Lupin contre Ganimard (1914), film français de Michel Carré, avec Georges Tréville
  • Arsène Lupin détective (1937), film français de Henri Diamant-Berger, avec Jules Berry
  • Arsène Lupin (1971-1974), série de Jacques Nahum, avec Georges Descrières
  • Lupin (2021), série Netflix, avec Omar Sy

Pour connaitre l’association des « lupiniens »:

Pour connaitre les lieux d’Arsène Lupin:

La matematica e l’azzardo

Cara lettrice, caro lettore,

l’inizio dell’anno scolastico coincide con la ripresa dell’anno sociale. Non c’è momento migliore per parlare dell’azzardo, dei suoi legami con la matematica e di come questa disciplina possa aiutare a combatterne la dipendenza patologica.

Breve storia dell’azzardo

I giochi con componenti casuali hanno origini antichissime e venivano praticati in molte parti del mondo: dall’antico Egitto alla Cina, passando per l’odierno Iran. L’azzardo vero e proprio, in cui cioè è presente una componente economica legata a eventi incerti, è già presente nell’antica Roma, in cui si praticavano regolarmente scommesse sugli esiti delle lotte tra gladiatori. La stessa parola “azzardo” deriva dal nome arabo dei dadi, diffusissimi in Europa già dal medioevo, al punto da essere citati anche da Dante e da Geoffrey Chaucer.

Non chiamatelo gioco

Secondo l’Articolo 721 del Codice Penale italiano, “sono giochi d’azzardo quelli nei quali ricorre il fine di lucro e la vincita o la perdita è interamente o quasi interamente aleatoria”. Eppure oggi diverse associazioni stanno promuovendo campagne affinché non si parli più di “gioco” d’azzardo, ma semplicemente di “azzardo” o “azzardopatia”, nel caso di dipendenza patologica.

Come mai è opportuno distinguere l’azzardo dal gioco? L’azzardo non è forse un gioco? Per provare a rispondere dobbiamo provare a dare una definizione di gioco che ci permetta di stabilire se le attività “nelle quali ricorre il fine di lucro e la vincita o la perdita è interamente o quasi interamente aleatoria” si possano considerare ludiche. Nell’articolo di maggio abbiamo lanciato ai lettori la sfida di provare a definire che cosa siano i giochi. La risposta che fino a ora ci è sembrata più esaustiva è quella del game designer Mark Rosewater, secondo il quale un gioco è “a thing with a goal (or goals), restrictions, agency, and a lack of real-world relevance”, ovvero “una cosa con uno o più obiettivi, restrizioni, in cui i partecipanti hanno la possibilità di effettuare delle scelte significative e che non ha rilevanza concreta”. L’azzardo ha un obiettivo (vincere soldi), ha delle restrizioni (le regole con cui si punta e si determina la vincita o perdita finale), chi vi partecipa ha la possibilità di effettuare delle scelte significative (la più semplice, presente anche nelle slot machine, è l’entità della puntata), ma ha una rilevanza concreta dovuta alle perdite economiche. Di conseguenza, secondo la definizione di Rosewater non si tratta di un gioco.

La nascita della probabilità

Vista la posta in gioco, talvolta considerevole, e le conseguenze sulla vita quotidiana, i partecipanti ad attività di azzardo hanno sempre cercato di mitigarne o addirittura dominarne il rischio. Per esempio, nell’antica Roma era venerata la dea Fortuna; inoltre il culto di quella divinità è proseguito almeno fino al Rinascimento. Un approccio più scientifico dell’azzardo è iniziato nel XVI secolo, con i lavori di Cardano, Pascal e Fermat. Al di là dell’analisi dei giochi specifici, quei primi studi hanno portato alla definizione classica di probabilità: la probabilità di un evento e uguale al rapporto tra il numero dei casi favorevoli al suo verificarsi e il numero dei casi possibili, a condizione che tutti i casi siano considerati ugualmente possibili. In formula, se ci sono k casi favorevoli e n casi totali, la probabilità è p=k/n. Questa definizione può essere usata per risolvere il quesito “Chi sta vincendo?” dell’articolo di giugno.

Oltre la definizione classica di probabilità

Le condizioni per applicare la definizione classica di probabilità sono molto restrittive: per esempio essa non si può utilizzare quando è difficile stimare se i casi considerati siano equiprobabili. Questo accade molto spesso per eventi empirici, per esempio i risultati delle gare sportive. Per tali situazioni occorre estendere la definizione di probabilità in un modo adeguato. All’inizio del Novecento il matematico Bruno De Finetti ha proposto una definizione soggettiva della probabilità proprio basata sul concetto di azzardo. Secondo la definizione di De Finetti, infatti, la probabilità che un individuo razionale attribuisce a un certo evento si calcola mediante il rapporto tra la somma che egli ritiene giusto scommettere, rischiando di perderla se l’evento non si verifica, e la somma che ha diritto di ottenere in cambio se l’evento si verifica. In formula, se un individuo è disposto a pagare C per ottenere S in caso si verifichi l’evento E, la probabilità è p=C/S. L’ipotesi di razionalità dell’individuo garantisce che la definizione di De Finetti estenda quella classica; inoltre, essa si può applicare anche quando le ipotesi per utilizzare la definizione classica non sono soddisfatte. La definizione di De Finetti permette inoltre di studiare in modo più dettagliato il comportamento degli individui, per esempio valutando la loro propensione o avversione al rischio.

Uno sguardo razionale sull’azzardo

Utilizzando gli strumenti matematici a nostra disposizione, come possiamo giudicare l’azzardo? Secondo De Finetti, un coinvolgimento continuo nell’azzardo porta alla rovina del giocatore, anche in presenza di giochi equi. Invece le proposte di azzardo, anche quelle legalizzate dallo stato italiano, non sono mai eque, ma sono sempre a favore del banco. Quindi, da un punto di vista dell’ottimizzazione della somma di denaro a nostra disposizione, l’unica scelta razionale è di non giocare mai.

Secondo il professor Franco Brezzi dell’Università di Pavia, c’è anche un altro modo razionale per rapportarsi con l’azzardo, per esempio con un gratta e vinci. L’acquisto di un biglietto infatti avrebbe senso se finalizzato a concedersi di sognare per qualche momento la possibilità di vincere. Anche solo comprarne due, però, vorrebbe dire pagare due volte uno stesso servizio, un atteggiamento decisamente poco razionale.

Per approfondire

Dante poeta-giudice del mondo terreno | Due lezioni di Roberto Antonelli su RaiScuola

Poco meno di 100 anni fa, nell’anno orribile del crack di Wall Street, il 1929, usciva un volume che avrebbe rivoluzionato gli studi danteschi nel mondo: si tratta di “Dante als Dichter der irdischen Welt” (“Dante poeta del mondo terreno”) del filologo tedesco Erich Auerbach. È ispirandosi a quest’ultimo che Roberto Antonelli, filologo romanzo e professore emerito dell’Università di Roma La Sapienza , pubblica il libro “Dante poeta-giudice del mondo terreno” e propone due lezioni-conferenze – presenti nel palinsesto di RaiScuola – che sono una lettura meticolosa e originale del poema dantesco.

Al titolo dell’opera di Auerbach, Antonelli aggiunge la parola “giudice” per rimarcare subito che il tema della giustizia, insieme a quello dell’amore, rappresenta un filo conduttore fondamentale per comprendere la CommediaIl poema dantesco – ci dice il filologo romano – va interpretato complessivamente, evitando interpretazioni esclusivamente metafisiche, che sono ovviamente ben presenti, ma non ne costituiscono l’unico asse portante.   

Dante ci narra un viaggio nell’Aldilà fino a Dio per fornirci tutte le possibili evidenze filosofiche e teologiche. Ma ci dice anche che tutto ciò è rivolto al suo ritorno sulla Terra, a ciò che potrà fare per spingere gli esseri umani ad agire e salvarsi da quella grande crisi in cui egli li vede immersi, insieme a se stesso. Per questo la Commedia può essere letta come un gigantesco teatro della memoria e del mondo: memoria delle tante manifestazioni dell’animo umano, meravigliose e tragiche nello stesso tempo. 

E, sempre per questo, il poema è anche una grande macchina elaboratrice di giudizi sui comportamenti e sulle emozioni degli esseri umani che ci porta a una riflessione appassionata sul tema della giustizia. La giustizia divina e quella umana sono rappresentate attraverso la soggettività di Dante in quanto Autore e in quanto Personaggio: due aspetti solo talvolta sovrapponibili che producono continue occasioni di drammatizzazione, di dubbio e di conflitto, nelle quali il Lettore – di fatto il terzo protagonista della Commedia – è chiamato a confrontarsi e interagire, ancora oggi. 

Attraverso le pene e i premi rappresentati nel suo viaggio ultraterreno, Dante vede in anticipo il giudizio dato da Dio alle azioni sulla terra di ogni essere umano. Naturalmente è un giudizio di Dio immaginato e voluto da Dante, anche al di là dei criteri del suo tempo, sia sul piano religioso che giuridico. Si crea così spesso una contrapposizione o un conflitto fra l’animo e i sentimenti di Dante come Personaggio che viaggia nell’Aldilà per purgarsi dei propri peccati e ciò che Dante come Autore fa incontrare al viaggiatore nell’Aldilà; si pensi al caso di Francesca da Rimini, condannata dal giudizio divino, ma vista con affetto e pietà da Dante personaggio e viaggiatore.

Sul grande tema della giustizia si trova coinvolto anche il terzo protagonista del poema: il LettoreOgni personaggio, con la sua pena o il suo premio, diventa infatti un problema con cui confrontarci.  È giusto il giudizio divino rappresentato nel poema? E se no, perché? Le pene e i premi rappresentati nel poema sono ancora attuali? E se il giudizio di Dio fissato nella Commedia è giusto, cosa dovrebbe fare il lettore, cosa dovrei fare io, per migliorare?

Il poema diventa così strutturalmente un’opera di carattere interattivo, poiché chiama continuamente anche il lettore a giudicare, a pensare. È lo stesso Dante infatti, in punti particolarmente importanti, a rivolgersi direttamente al lettore per metterlo in guardia, esortarlo, chiamarlo a partecipareNon è difficile capire il fascino che esercita ancora oggi la Commedia come vero e proprio paradigma nel quale specchiare dubbi e aspirazioni che sono anche dell’età contemporanea: a distanza di sette secoli, Dante continua a parlarci.

Per approfondire

Roberto Antonelli parte dal celebre saggio di Gianfranco Contini del 1965 in cui ci si domandava se la Commedia fosse ancora letta e si rifiutava la distinzione crociana tra poesia e non poesia nel poema dantesco. Oggi sul web la Commedia di Dante è molto studiata e cercata, si tratta di un’opera che presenta una straordinaria apertura sul mondo e sugli uomini. Probabilmente è il libro con il maggior numero di personaggi che sia mai stato scritto e Dante lo ha attentamente programmato.

Il nucleo centrale del discorso di Antonelli riguarda il rapporto tra Dante e Bonifacio VIII. Fu questo papa a indire il Giubileo del 1300, cui forse Dante partecipò da pellegrino, restando colpito dall’entusiasmo dei fedeli. Dante considera il papato di Bonifacio VIII l’origine dei mali della Chiesa e colloca il papa nell’Inferno tra i Simoniaci, anche se all’epoca in cui immagina di aver compiuto il proprio viaggio nell’Aldilà era ancora vivo. La condanna di Bonifacio VIII, che fu causa dell’esilio di Dante, è totale e senza appello: Dante si fa testimone del proprio tempo e nello stesso tempo del cammino dell’umanità.

L’autore prosegue la sua riflessione sul tema della giustizia e sulla Commedia come grande opera rivolta al mondo terreno, pur essendo nello stesso tempo il più grande poema visionario e religioso della storia umana.

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Dante poeta giudice del mondo terreno

Roberto Antonelli – Viella

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Ambiente, territorio e animali nella Divina Commedia

Nella selva oscura della Commedia non ci sono confortanti tracce dell’uomo, ma soltanto presenze ostili, animali feroci e la sensazione di una minaccia incombente. Dante ci racconta un bosco che fa paura, in cui sono presenti tutti gli ingredienti che ritroviamo anche nelle fiabe dei bambini, a partire da quella di Cappuccetto Rosso: c’è il senso di smarrimento e c’è persino il lupo cattivo. La sensazione di paura è creata dalla percezione di ritrovarsi in solitudine nel mezzo della natura.

La selva selvaggia e la lupa

L’incipit della Commedia di Dante è stato uno dei più potenti veicoli di un immaginario negativo tanto del lupo, quanto del suo habitat, il bosco. Proviamo però a leggere il testo, per meglio comprenderne la logica interna. 

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!

Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.

Io non so ben ridir com’i’ v’intrai,
tant’era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.

Il viaggio iniziatico di Dante comincia da un bosco, un luogo che è stato spesso usato, basti pensare alle fiabe, come simbolo, non necessariamente negativo, del passaggio e della trasformazione. Dante prova paura quando si ritrova in una “selva” buia e “selvaggia”. Questa qualifica – “selvaggia” – non è per nulla tautologica ed è decisiva per capire quale particolare tipo di bosco terrorizzi gli uomini del Medioevo: si tratta di un bosco profondo, non toccato da mano umana, dove la natura trionfa. È lì che il Poeta si perde («la diritta via era smarrita», «la verace via abbandonai»).

La selva selvaggia di Dante è ben differente dai boschi “domestici”, segnati dalla presenza umana e da coltivazioni temporanee o arboricole, come il castagno, e non è neppure assimilabile alla “foresta”, che, se poteva essere molto simile nella conformazione e nelle specie arboree, evocava invece nei suoi contemporanei un’immagine assai diversa da quella di un luogo pericoloso, abbandonato e incontaminato. La “foresta” del Medioevo è uno spazio di pertinenza regia, sottoposto al diritto pubblico, accessibile soltanto secondo determinate regole e il cui uso può essere riservato per particolari attività, come, per esempio, la caccia del re e dei suoi fedeli. Non stupisce dunque che Dante preferisca usare la parola foresta per definire il bosco dell’Eden, dove giungerà al termine della salita del Purgatorio. La foresta è dunque un luogo sottoposto alla legge imperiale sulla terra dei vivi, secondo gli ideali politici del Poeta, e alla legge divina nel Paradiso terrestre, che prelude al Regno dei Cieli.

Nello spazio ostile della selva, invece, dopo avere incontrato due fiere feroci, Dante si imbatte nella terza, la più temibile di tutte:

Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,

questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza de l’altezza.

E qual è quei che volontieri acquista,
e giugne ’l tempo che perder lo face,
che ’n tutti suoi pensier piange e s’attrista;

tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi ’ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove ’l sol tace. 

(Dante, Inf. I)

Fa dunque la comparsa la lupa, che avanzando ricaccia il povero Dante proprio in quella parte più fitta del bosco. Se restiamo sul piano letterale, il comportamento della lupa non ha nulla di sorprendente: spinge la preda nel suo habitat, dove la vegetazione è più fitta, gli alberi crescono affastellandosi gli uni sugli altri ostacolando il passaggio della luce e la presenza umana è assente. 

Tra natura e allegoria

Ciò che rende davvero Dante un abile regista dell’horror è la capacità di caricare la selva di una connotazione sinistra, legata non già ai pericoli materiali, ma a quelli allegorici che si intuiscono per l’anima dell’autore. Dante infatti non si è perso soltanto nella foresta, ma anche nella vita, e le fiere sono spaventose, ancor più che per le ferite fisiche che possono produrre, per quelle interiori derivanti dai vizi che rappresentano. 

La lupa, in particolare, è l’unica fiera dantesca che ha solo attributi negativi: rappresenta infatti gola, dissolutezza, cupidigia, lussuria e avarizia. E non è per nulla casuale la scelta di Dante di parlare della lupa al femminile: in latino, infatti, il termine lupa era usato per le prostitute (da cui “lupanare”). Insomma, come del resto doveva essere nelle orecchie di qualsiasi contemporaneo di Dante, abituato a sentir parlare di lupi nelle prediche religiose, la lupa era identificabile senza incertezze con l’allegoria del male tout court.

Ma la lupa ha ulteriori significati. Non si riferisce soltanto a peccati e vizi individuali, né a un’allegoria generica. È stata infatti interpretata come la personificazione della chiesa corrotta di Bonifacio VIII, che Dante critica aspramente. E c’è anche la possibilità che, evocando la lupa, Dante avesse in mente un preciso ritratto sociale. Egli doveva essere ben consapevole che per un cittadino di un qualsiasi comune italiano all’inizio del XIV secolo, a partire da Firenze, il lupo aveva anche una precisa connotazione politica. Come abbiamo visto, nei discorsi politici, ai lupi famelici – «di tutte brame sembiava carca ne la sua magrezza» dice Dante – si fa frequentemente ricorso per simboleggiare le divisioni interne alla città, la discordia e gli abusi dei magnati, cioè delle famiglie più potenti della città, caratterizzate dall’ostentazione della ricchezza, da uno stile di vita violento e dalla volontà di dominio sugli altri concittadini. Avari, lussuriosi, dissoluti e golosi: così dovevano apparire i magnati alla maggioranza della popolazione. E proprio questo tema politico – dei conflitti e delle divisioni interne causate dagli odi familiari – è senz’altro fra i leitmotiv della Commedia.

Due sono dunque i piani su cui il Poeta costruisce il nostro senso di angoscia. Da un lato, il confronto con uno spazio naturale che si presenta in una veste temibile e ostile all’uomo, la selva popolata da animali feroci, che svolge un ruolo analogo a quello che avrebbero potuto rivestire il mare in tempesta o il vulcano durante un’eruzione. Dall’altro, Dante gioca sul senso del male, sul significato allegorico che assumono i luoghi e gli animali, ma anche sull’angoscia del presente causata dalla congiuntura politica di inizio XIV secolo.

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Il tempo dei lupi

Storia e luoghi di un animale favoloso di Riccardo Rao – edizioni Utet

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Fiestas populares: patrimonio intagible

Muchas de las fiestas y tradiciones populares que se celebran en verano y en primavera tienen un origen diferente. Algunas se remontan a festividades paganas (San Juan), otras recuerdan acontecimientos religiosos (La Pascua, Santiago Apóstol o el Inti Raymi) o históricos (los Sanfermines, las fiestas de Moros y Cristianos o la Romería vikinga en Catoira); en cambio, en otras, el elemento religioso se mezcla con elementos paganos (el Carnaval y las Fallas); y, en otras, como la Tomatina, tienen natales oscuros.

Para conocer mejor estas fiestas os dejamos unos enlaces con los que vuestros alumnos pueden seguir ejercitando no solo sus capacidades de comprensión de lectura, de escritura y oral, sino también el léxico (geografía, clima, moda, colores) y la gramática (tiempos verbales, perífrasis de futuro).

Para conocer más detalladamente las fiestas en España y en Hispanoamérica, podéis visitar los siguientes enlaces.

Este mes, nos despedimos con un acertijo para que propongáis a vuestros alumnos: ¿Qué tienen en común la fiesta de Os Maios” (Los Mayos, en español) en Galicia, el Calendimaggio o Cantar maggio que se celebra en diferentes ciudades toscanas, la fiesta de I Ceri en Gubbio y el huevo? 

¡A ver quién de vuestros alumnos lo adivina antes!

I centenari danteschi nell’Italia unita

1865 – L’Italia delle cento città 

Non furono molti gli intellettuali che, nel 1821, ricordarono il V centenario della morte di Dante, avvenuta a Ravenna nel settembre del 1321, anche se un viaggiatore francese dell’epoca osservava: “la tomba di Dante è, per l’immaginazione, il primo monumento di Ravenna, e una delle più illustri tombe del mondo”.

Nel maggio del 1865, in occasione del VI centenario della nascita, l’Italia unita lo celebrava solennemente a Firenze, centro di un vero e proprio festival durato giorni e culminato nell’inaugurazione del monumento all’Altissimo Poeta in piazza Santa Croce, alla presenza di Vittorio Emanuele II. Era l’Italia delle cento città che convergeva nelle strade medievali e rinascimentali di Firenze, da poco capitale del Regno, a testimoniare la patria “dal basso”, quella orgogliosamente municipale che aveva cooperato alla lotta per l’indipendenza. Naturalmente i discorsi si sprecarono e la retorica corse a fiumi: un cliché che si sarebbe ripetuto puntualmente in occasione dei centenari successivi. 

I motivi della spettacolarizzazione di Dante

La spettacolarizzazione di Dante si sposava con l’esigenza di costruire una narrazione della vicenda letteraria italiana in funzione dell’immancabile esito nazionale. Alcuni grandi anticipatori avevano intuito l’Italia unita secoli prima del Risorgimento: Dante era stato il primo anello di questa gloriosa catena. Il ruolo dello Stato, nella preparazione della kermesse fiorentina, era stato tutto sommato modesto, dato che una vera e propria politica culturale mancava alla Destra storica al potere; il vivace mondo dell’intellettualità di provincia aveva sopperito col suo entusiasmo e con le inevitabili ingenuità.

1921 – Lo Stato nazionale vincitore della Grande Guerra

Alcuni decenni più tardi, nel settembre del 1921, quando Dante tornò nell’agenda nazionale in previsione del VI centenario della morte, il clima era del tutto diverso. Questa volta protagonista assoluto era lo Stato nazionale, vincitore della Grande Guerra, che aveva reso reali i confini geografici della patria intravisti da Dante nella Divina Commedia. Il vaticinio si era dunque realizzato e l’Altissimo Poeta poteva figurare a buon diritto fra i precursori del nazionalismo trionfante. 

Si tenga presente il clima: concluso il “biennio rosso”, il riflusso sul patriottismo, nelle sue diverse accezioni, era in pieno corso. A novembre sarebbero state solennemente traslati i resti del Milite Ignoto al Vittoriano, il grande monumento eretto a ridosso del Foro Romano. Le celebrazioni dantesche disegnavano un percorso nel duplice segno della morte in nome della patria: da quella celebre del 1321 a quella eroica, avvenuta in un punto indefinito del fronte, durante la carneficina del 1915-1918.

1965 – La Repubblica democratica

Nel 1965, la Repubblica democratica che si apprestava a festeggiare il VII centenario della nascita di Dante era espressione di una comunità laboriosa e ottimista. Il boom economico aveva accompagnato fuori della marginalità e dell’arretratezza milioni di italiani; la scuola funzionava da efficace “ascensore sociale”. La lingua degli italofoni, la lingua di Dante, ormai prevalente sulla dialettofonia ancora ben radicata in un recente passato, era divenuta un vettore di emancipazione individuale e collettiva. L’Altissimo Poeta fu soprattutto studiato nelle classi, mandato a memoria, inserito nel percorso di formazione dell’alunno. Una lettura ben diversa da quella del 1921: l’orgoglio nazionale restava, ma era quello di una democrazia compiuta e in ascesa, che valorizzava le sue radici culturali.

Dante oggi: globale e internazionale, ma con le domande giuste

E’ difficile dire, oggi, quale sia il senso del nuovo centenario. Prevalente è l’idea, piuttosto generica, di un Dante “internazionale”, “globale”, che interpella donne e uomini del mondo intero con la forza ancora intatta della sua parola. Un Dante messaggero di “italianità”, come si sarebbe detto una volta, testimonial di una pacifica “grande potenza culturale”? Può darsi che questa, a livello governativo o istituzionale, sia o sia stata l’intenzione originaria. La sensazione, al di là delle iniziative – talune bellissime, altre nel solco della retorica consueta – è che a un Paese in cerca di sé stesso sia difficile chiedere un progetto prospettico, valido per il futuro. Dante, quindi, può sicuramente darci la risposta, ma spetta a noi porgli la domanda giusta.